Negli anni Ottanta contribuì a creare il partito autonomista insieme a Umberto Bossi. È stato il secondo segretario della Lega e ha guidato la Lombardia tra il 2013 e il 2018. Aveva 67 anni
È morto questa notte Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e del Lavoro, fondatore della Lega insieme a Umberto Bossi e presidente della regione Lombardia tra il 2013 e il 2018. Aveva 67 anni.
Storico numero due della Lega, con un rapporto di amicizia spesso travagliato con il leader Bossi, a cui nel 2012 era succeduto dopo una serie di scandali, negli ultimi anni si era allontanato dalla vita di partito ed era diventato una delle principali voci critiche della segreteria di Matteo Salvini, pur senza mai rompere apertamente.
Vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno nel primo governo Berlusconi, ministro del Lavoro tra 2001 e 2006 e poi di nuovo all’Interno tra 2008 e 2011, Maroni è stato a lungo il più istituzionale dei leader leghisti, spesso apprezzato anche da chi gli era lontano politicamente.
La sua opera di ministro è ricordata soprattutto per i “pacchetti sicurezza” e l’atteggiamento duro contro l’immigrazione. I suoi accordi con la guardia costiera libica per organizzare i respingimenti dei richiedenti asilo erano nel segno di quanto avrebbero fatto i governi successivi. Lo “scalone Maroni” che porta il suo nome è stata una riforma per alzare l’età pensionabile che anticipava la riforma Fornero, ma che non è mai entrata in vigore.
La mamma della Lega
Nato a Varese nel 1955, studente di legge fuoricorso di orientamento marxista-leninista, Maroni si incontra con Umberto Bossi nel 1979 e tra i due nasce un’amicizia-rivalità che segnerà la storia della Lega e quella della seconda repubblica. «Se Bossi è il papà della Lega, io ne sono la mamma», dirà anni dopo quell’incontro.
I primi anni di vita politica insieme sono entrati nella leggenda del partito, con racconti di scorribande notturne per la provincia lombarda ad attaccare manifesti e dipingere slogan autonomisti. Il successo per il partito arriva alle regionali del 1990. Quello di Maroni, che fino a quel momento ha lavorato nel privato come manager e avvocato, nel 1992, quando entra per la prima volta in parlamento.
I due rompono nel 1995, quando Maroni lascia il partito in contrasto con la decisione di far cadere il governo Berlusconi. Ma quando la Lega trionfa alle regionali, decide di tornare nel partito. Le tensioni riaffiorano negli anni successivi sempre sullo stesso punto: Bossi vuole strappare, Maroni è per la conciliazione.
Quando nel 2004, Bossi viene colpito ad un ictus, il partito passa sotto controllo di un gruppo di suoi fedelissimi ribattezzato “cerchio magico”. Maroni è tagliato fuori. Avrà la sua vendetta nel 2012, quando si scopre che il “cerchio magico” usa i fondi della Lega per finanziare le spese personali della famiglia Bossi. Maroni si mette a capo della rivolta dei militanti, si presenta ai comizi armato di scopa e promette di fare pulizia nel partito. A luglio viene eletto segretario della Lega.
Con il partito in crisi di consensi e che appare prossimo alla scomparsa, in parlamento si parla di “emendamenti salva-Lega” alla legge elettorale, Maroni lascia l’incarico dopo poco più di un anno, per correre come candidato presidente in Lombardia. Eletto nel 2013, diventa il primo leghista in quasi 20 anni a guidare la regione simbolo del partito.
Di nuovo numero due
Alla segreteria del partito gli succede Matteo Salvini che, contro ogni aspettativa, rivitalizza il partito portandolo in poco tempo al livello di consensi che aveva nei migliori anni di Bossi. Salvini abbandona il tema dell’autonomia del nord e i toni paludati di Maroni e torna a usare il linguaggio incendiario del fondatore del partito.
I due non si amano, ma la rottura definitiva arriva solo nel 2018. Maroni annuncia a sorpresa che non intende ricandidarsi alla guida della regione. Secondo molti, scommette che alle elezioni politiche non uscirà una maggioranza chiara e spera di diventare il presidente del Consiglio tecnico che possa mettere d’accordo una grande coalizione.
Ma la reazione di Salvini e Berlusconi è netta. Maroni viene attaccato duramente, come aveva fatto Bossi nel 1995. Non si ricandida all’elezioni e da quel momento si allontana dalla vita politica. Trascorre gli ultimi anni scrivendo articoli per il quotidiano il Foglio, dedicandosi alla musica nel gruppo jazz Distretto 51.
Nel 2020, mentre la leadership di Salvini inizia a dare segni di crisi, Maroni sembra intenzionato a tornare alla politica attiva e annuncia la sua candidatura a sindaco di Varese. Pochi mesi dopo, però, annuncerà il suo ritiro a causa della scoperta di un tumore al cervello. Sposato con Emilia Macchi, Maroni lascia tre figli: Chelo, Fabrizio e Filippo.
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