- Se i discorsi meritano un titolo, quello pronunciato da Sergio Mattarella rimarrà nella memoria come il “discorso della dignità”, «pietra angolare del nostro impegno».
- Con il suo discorso il capo dello stato ha dettato la chiave per leggere non le sue prossime azioni, ma natura e obiettivi del prossimo settennato.
- Al fondo, giurando per la seconda volta, il suo messaggio è stato semplice e diretto: «Se ne siete capaci tornate a fare politica». Facciamo in modo di ascoltarlo.
Se i discorsi meritano un titolo, quello pronunciato da Sergio Mattarella rimarrà nella memoria come il “discorso della dignità”. Una dignità descritta come «pietra angolare del nostro impegno, della nostra passione civile».
Il presidente ha elencato radici e traguardi di quel termine da tempo cuore della battaglia di alcuni e che dovrebbe fondare l’ambizione della politica se intesa come strumento di emancipazione della parte offesa del mondo.
Dignità, ha detto, è opporsi al razzismo e all’antisemitismo. Dignità è impedire la violenza sulle donne. Dignità è combattere la schiavitù e la tratta degli esseri umani. Dignità è contrastare la povertà. Dignità è lotta all’abbandono scolastico. Dignità è azzerare le morti sul lavoro. Dignità è rispetto per gli anziani che non possono essere lasciati soli. Dignità è un paese dove le carceri non siano sovraffollate. Dignità è rispetto delle persone disabili. Dignità è un paese libero dalle mafie.
In sintesi, una dignità fondata sull’Europa della pace, sulla democrazia della partecipazione, su una giustizia riformata, sulla lotta a disuguaglianze e miserie.
Da Napolitano a oggi
Eccolo il senso di un discorso coerente con quello rivolto ai giovani lo scorso 2 giugno nel cortile del Quirinale: riconciliare la Repubblica a donne e uomini in carne e ossa (a «quelli che hanno letto un milione di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare» per citare Francesco De Gregori, ripreso in quella giornata di festa).
Oggi come allora la coscienza dei pericoli che corre una democrazia mai concessa una volta e per sempre credo abbia spinto il capo dello stato a una richiesta pressante: scavare fondamenta profonde per una Repubblica attrezzata a reggere nuovi possibili urti.
Nove anni fa la rielezione di Giorgio Napolitano fu l’esito di un parlamento sconfitto, persino umiliato. Una maggioranza di centrosinistra aveva bruciato alcune delle sue risorse migliori.
Questa volta l’assenza di una maggioranza ha condotto a un risultato dettato dalle condizioni di partenza. Anche per questo sarebbe un errore giudicare i due momenti come una fotografia sdoppiata.
Questo nuovo strappo non avrà, né potrebbe avere, uguali conseguenze. Siamo alle prese con un inedito destinato più dell’altro a lasciare un’impronta sui prossimi anni, e il discorso di oggi, così rivolto al futuro, lo ha confermato.
Il punto è cosa implicherà un arco di quattordici anni per una carica monocratica che i padri costituenti immaginarono nella sua temporaneità. Tre lustri si avvicinano a un ciclo storico e in quanto tale bisogna valutarlo, come una stagione destinata a mutare gli assetti di forze, leadership, rappresentanze. E siamo al punto.
Con il discorso pronunciato dinanzi alle Camere riunite Sergio Mattarella ha dettato la chiave per leggere non le sue prossime azioni, ma natura e obiettivi del prossimo settennato.
Non ha parlato di legge elettorale, in compenso ha reso merito al parlamento per aver assolto al compito che aveva, risolvere un rebus divenuto in corso d’opera via via più insolubile (giorni “travagliati” anche per lui ha tenuto a precisare).
Che indicazione trarne? Di certo una conferma del messaggio che il Colle ha marcato nell’ultimo anno e che rinnoverà in questo, preservare la stabilità del governo.
La posta in gioco – i fondi dell’Europa assieme all’uscita dalla pandemia – è troppo alta per esporci a una scommessa elettorale dall’esito incerto. Per tutto ciò la partita quirinalizia se da un lato è stata letta come una débâcle della politica, o parte di essa, dall’altro restituisce a parlamento e partiti la responsabilità di decidere il loro destino.
Per chi temeva un presidenzialismo di fatto potrà essere un sollievo, per gli altri è la vera prova da superare nel senso che arrivare alle urne del 2023 senza una chiara offerta di alternative (intendo, programmi, visione della società, priorità sul fronte sociale e del lavoro, difesa e promozione della dignità di ciascuno) sancirebbe il fallimento di una classe politica denunciato da alcuni come già consumato.
Personalmente non lo credo, ma la condizione per far vivere una tesi diversa non sta nelle parole, delle promesse neanche a parlarne. Sta nel coraggio con cui ogni soggetto, a partire dal Pd, saprà costruire un’agenda realistica di traguardi e alleanze nel paese. Al fondo, Sergio Mattarella giurando per la seconda volta non ha invocato miracoli, il suo messaggio è stato più semplice e diretto: «Se ne siete capaci tornate a fare politica». Facciamo in modo di ascoltarlo.
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