Ne sono consapevole: suona ingenuo ed eccentrico invocare l’unità in queste ore contrassegnate dalla divisione tra le forze di opposizione. Dalla Liguria ove l’unità sembrava cosa fatta, al tormentone sull’inclusione o meno di Italia viva, sino al caso Rai.

Per inciso: giudico imbarazzante la giravolta di M5s e Avs e, più ancora, l’ipocrisia con cui si sono arrampicati sugli specchi per motivarla. Per occultare la semplice e cruda verità delle cose: il cedimento alla più vecchia e consunta pratica di acchiappare qualche strapuntino Rai in quella che, da sempre, è concepita dai partiti come una greppia cui non sanno rinunciare, incuranti della circostanza di fare così un regalo alle destre che non avevano i numeri per portare a compimento l’occupazione militare di TeleMeloni. Sino a raccontare la pietosa bugia che, a rompere il fronte unitario, sia stato chi, ovvero Elly Schlein, in solitaria, ha semmai onorato l’impegno sottoscritto da tutti solo due mesi fa.

Di più: conosco e condivido l'obiezione di chi, con riguardo all'invocazione dell'unità tra le forze di opposizione, osserva che l'enfasi sull'unità non basta, che chi intende proporsi come alternativa di governo deve dare prova di realizzare l'unità intorno a un programma o quantomeno alle linee portanti di esso facendo sintesi delle differenze.

È quasi una ovvietà alla Catalano. Tuttavia, mi ostino a pensare che, per approntare un'alternativa e raccogliere un adeguato consenso sia necessario fare leva sulla forza evocativa della parola unità. Alzando lo sguardo e la posta. Assegnando all’unità un pregnante senso ideale, politico e programmatico che trascenda il suo mero significato politicista, il quale solo designa l'architettura dell'alleanza, l’accordo di vertice tra i partiti.

Un paese diviso

Si tratta di concepire e proporsi l'obiettivo dell'unità - quasi fosse la stella polare della propria, comune offerta politica - di un paese troppo diviso (sotto molti profili); di qualificare in tal senso l'alternativa alle destre che ci governano, mostrando come esse semmai si nutrono delle divisioni e oggettivamente, con la loro azione, approfondiscono le molteplici fratture che affliggono il paese. Esemplifico.

Penso alle macroscopiche disuguaglianze economiche e sociali, al lavoro precario e mal pagato, a un sistema fiscale clamorosamente iniquo, che penalizza i redditi da lavoro, che pratica una vistosa disparità di trattamento tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, che, con le flat tax, teorizza e pratica l'opposto del principio costituzionale della progressività. Minando appunto la coesione sociale.

Penso allo squilibrio tra nord e sud che si vuole semmai dilatare con l'autonomia differenziata. Penso al doppio standard di una “giustizia di classe”, l'opposto del principio secondo il quale la legge è uguale per tutti. Penso alla «madre di tutte le riforme», il premierato, che prospetta un sistema istituzionale al cui vertice sta un dominus eletto attraverso un meccanismo di stampo plebiscitario destinato a spaccare verticalmente il paese (non insegna nulla il caso del presidenzialismo americano che ci ha fatto assistere increduli e sgomenti all’assalto di Capitol Hill?).

Penso alla resistenza a dare la cittadinanza ai nuovi italiani e a politiche dell'immigrazione illusoriamente securitarie, che, al contrario, producono sacche di esclusione e di marginalità nelle nostre città. Penso anche a una politica estera che si rassegna ai rapporti di forza e ai conflitti tra le nazioni, in contrasto con la storica tradizione dell'Italia e dell'Europa quali attori, per indole e vocazione, versati per operare mediazioni, per gettare ponti lungo il doppio asse est-ovest e nord-sud. A cominciare dal Mediterraneo.

Oltre la retorica

Come si evince da questi esempi, una offerta politica che faccia dell'unità in senso forte e sostanziale la propria bussola – ricucire un paese diviso e valorizzarne la vocazione mediatrice – rappresenta una suggestione suscettibile di mobilitare energie e consenso.

L'unità delle forze politiche conta – una unità tanto apprezzata dagli elettori (più che dai gruppi dirigenti), che a ogni occasione la invocano – ma essa è solo uno strumento. Insisto: il fine è piuttosto quello di unire il paese.

Lo slogan «testardamente unitari» e la decisione di non escludere pregiudizialmente nessuno trascendono la disputa a proposito dell’inclusione di questo o quel partito, questa o quella sigla. Compreso lo stucchevole, modesto dilemma Renzi sì Renzi no. Francamente un dettaglio.

I cittadini intuiscono e apprezzano quando l’unità non si risolve nel riferimento all'aggregazione delle sigle per designare piuttosto uno spirito e una tensione che informino in radice una politica tesa a fare della Repubblica una ospitale "casa comune" (locuzione cara ai costituenti), senza discriminazioni ed esclusioni.

Al tempo dell'Ulivo si coniò un motto, «uniti per unire», che fece breccia anche tra gli elettori non di sinistra. Ovvero: mettiamo insieme cittadini, forze sociali e politiche al fine di unire la comunità tutta. Così intesa, l’unità non è retorica o irenismo ma orizzonte di una offerta politica alta e alternativa.

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