Il testo, che ha trovato un consenso unanime da parte delle forze politiche, segna un ulteriore passo nel percorso del riconoscimento giuridico di quello che, a livello internazionale, si definisce «patrimonio vivente». Parliamo di tradizioni, pratiche, rituali che, tramandandosi di generazione in generazione, costituiscono l’identità di ciascuno di noi e delle comunità in cui viviamo. Ma restano ancora alcune questioni da risolvere
È stata approvata definitivamente dal parlamento la legge sul riconoscimento delle rievocazioni storiche con cui, tra l’altro, si delega il governo ad emanare uno o più decreti legislativi per disciplinare, in modo organico, la tutela del patrimonio culturale immateriale.
La nuova legge, che ha trovato un consenso unanime da parte delle forze politiche e trae origine da una proposta del presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati Federico Mollicone, segna un ulteriore passo nel percorso del riconoscimento giuridico di quello che, a livello internazionale, si definisce «patrimonio vivente».
Negli ultimi vent’anni, infatti, abbiamo assistito a timidi e frammentati tentativi di superare una visione ottocentesca del concetto di “cultura”, ancorata esclusivamente a beni materiali e volta ad escludere quelle tradizioni, pratiche, saper fare, rituali che, tramandandosi di generazione in generazione, costituiscono l’identità di ciascuno di noi e delle comunità in cui viviamo.
Italia indietro
L’Italia sconta al riguardo un ritardo incredibile. Pur avendo, infatti, ratificato sia le Convenzioni internazionali Unesco e del Consiglio d’Europa sul patrimonio culturale immateriale, mancava nel nostro ordinamento giuridico una definizione univoca di cosa fosse questo “patrimonio vivente” e, dunque, di come andasse tutelato.
Anzi, peggio: il codice dei Beni culturali, all’articolo 7bis, espressamente prevede (e continua a prevedere) che la tutela del patrimonio immateriale sia possibile solo nelle sue manifestazioni materiali. Come a dire che, nel caso del teatro dei pupi siciliani deve essere tutelata la marionetta ma non la tradizione orale che la rende viva.
Un controsenso che trova il proprio fondamento in una ormai superata interpretazione del dettato costituzionale avallata dalla Corte costituzionale nel 1990 quando, pronunciandosi sulla legittimità della norma alla base del vincolo apposto dal ministero della Cultura nei confronti dell’Antico Caffè Genovese di Cagliari, ha rimarcato come il valore immateriale «non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal bene ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, quindi, non può essere protetto separatamente dal bene».
La legge ora approvata dovrebbe, dunque, cancellare definitivamente la visione distonica delle politiche culturali del nostro paese quanto meno perché, all’articolo 10, impone allo stato di riconoscere «il patrimonio culturale immateriale come componente del valore identitario e storico per gli individui, le comunità locali e la comunità nazionale», assegnando dunque rilievo giuridico «alle prassi, alle rappresentazioni, alle espressioni, alle conoscenze, alle competenze nonché agli strumenti, agli oggetti, ai manufatti e agli spazi culturali associati agli stessi, che le comunità, i gruppi e gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale».
Certo la definizione data dalla legge è diversa da quella fornita dalle principali convenzioni internazionali in materia e, inoltre, il provvedimento rimanda a dei decreti legislativi di cui poi occorrerà valutare l’effettiva portata; ma è comunque un grande passo avanti se si pensa che, tra l’altro, questi provvedimenti dovranno riordinare proprio quei frammenti di normazione che sono stati adottati, senza alcun approccio organico, in questi vent’anni.
Cosa manca
Restano ora da risolvere due questioni. La prima attiene alla natura del patrimonio culturale immateriale: a differenza, infatti, dei beni culturali, questa tipologia di espressioni culturali sono dinamiche, in continua evoluzione, e non possono essere musealizzate secondo le metodiche tradizionali con il rischio di essere cristallizzate nel tempo e nello spazio.
I decreti legislativi dovranno, quindi, tenere conto di questa speciale dimensione e prendere spunto dalle soluzioni normative adottate in paesi come Giappone e Corea le cui prime leggi in materia risalgono, rispettivamente, al 1950 e al 1964.
La seconda questione riguarda il rapporto con le regioni. Nel silenzio avvilente del legislatore nazionale, infatti, le regioni sono intervenute, da un lato, con leggi specifiche rivolte a tutelare singole espressioni dei patrimoni immateriali e, dall’altro, a individuarne gli strumenti di tutela e di valorizzazione istituendo, ad esempio, appositi registri come in regione Campania. Occorrerà capire come coordinare questa ricca produzione normativa, anche per non disperderne i tanti effetti positivi prodotti.
Spetterà ora agli uffici del ministero della Cultura dare attuazione immediata alla delega e risolvere, tra gli altri, questi due nodi, consentendo così al nostro paese di colmare un vuoto fin troppo eclatante.
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