- Dopo la parabola della sindaca Chiara Appendino, che ha aperto la strada al divorzio tra la sinistra e il suo elettorato popolare, il capoluogo piemontese appare come una città contesa tra due coalizioni tradizionali forti ognuna della debolezza dell’altro.
- Nel Pd i nomi in corsa sono molti ma i favoriti sembrano essere il docente ordinario del Politecnico, Stefano Lo Russo, e il consigliere comunale, Enzo Lavolta, già assessore ai tempi di Fassino.
- Sembra invece passato un secolo da quando il M5s ha conquistato Torino con una campagna elettorale spensieratamente di ultra sinistra, fatta di bandiere No Tav, No inceneritore e acqua pubblica.
Dopo decenni di candidati schierati con l’obiettivo di perdere con dignità, il centrodestra torinese si trova oggi nella insolita condizione di competere per vincere le elezioni amministrative del 2021. Una novità che Torino ha storicamente escluso dal panorama del possibile, frutto di una frattura sociale tra il centro città e le periferie che si è acuita nell’ultimo anno.
Dopo la parabola della sindaca Chiara Appendino, che ha aperto la strada al divorzio tra la sinistra e il suo elettorato popolare, il capoluogo piemontese appare come una città contesa tra due coalizioni tradizionali forti ognuna della debolezza dell’altro.
In origine a sinistra c’era un forte candidato “civico”, il rettore del Politecnico di Torino Guido Saracco, molto ben visto dal duo Chiamparino-Appendino, nonché dal mondo che unisce accademia, industria, finanza e terzo settore. Una via d’uscita per superare le acrimonie locali di M5s e Partito democratico. Sintesi perfetta dei desideri della maggioranza giallorossa di governo.
Ma il rettore è finito dentro un ingranaggio fatto di ruggini torinesi, una miscellanea di antipatie e vicendevoli accuse di incompetenza risultate insuperabili, a cui si è aggiunto lo scarso entusiasmo di parte di una componente importante dei parlamentari torinesi del Pd. Anche il M5s torinese, al di là della sindaca alla quale si deve l’“invenzione” politica di Saracco, ha sempre dimostrato gelo verso il rettore del Politecnico, visto come un corpo estraneo, un’imposizione nei confronti della base. Così Saracco, con aplomb torinese, ha rinunciato.
A questo punto il Partito democratico, come da tradizione ormai secolare, si è concentrato sul conflitto interno. Per dirimerlo in maniera elegante, e democratica, nel partito hanno pensato di ricorrere alle ormai quasi fuori moda “primarie”. A causa del Covid le primarie sono state sospese e voci interne sostengono che in fondo è meglio così, perché in questo modo si giungerà a una candidatura unitaria.
I nomi in corsa sono molti ma i favoriti sembrano essere il docente ordinario del Politecnico, Stefano Lo Russo, e il consigliere comunale, Enzo Lavolta, già assessore ai tempi di Fassino e molto attivo in questi giorni. Fin troppo, per alcuni capi del suo partito.
Il primo, attuale capogruppo in comune, si muove con adamantina coerenza su un solco politico tetragono: no a ogni tipo di alleanza, anche al secondo turno, con il mondo pentastellato. Lo Russo tenta di ricucire con il mondo popolare che nel 2016 ha espresso un voto di vendetta nei confronti dei democratici. Visita spesso le periferie e affronta lo spinoso, a sinistra, tema della “sicurezza”.
In fondo è in quei quartieri attraversati da inquietanti mancanze di prospettiva che si vincerà o perderà. Contesti dove disoccupazione e povertà sono convitati di pietra e soffiano sul desiderio di riscatto immediato. Quartieri duri, che hanno premiato nel 2019 la destra di Salvini con percentuali inimmaginabili fino a pochi anni fa.
I due candidati “locali” del Partito democratico rappresentano la prima, timida, emancipazione da via Chiesa della Salute, la sede del Pci in cui sono nati politicamente Sergio Chiamparino e Piero Fassino: i quali però avevano individuato una contromossa nel docente universitario Andrea Giorgis, oggi sottosegretario alla Giustizia, uomo di partito vicino a Chiamparino ma attualmente lontano dalla città. Giorgis ieri si è detto «non disponibile».
Sembra invece passato un secolo da quando il M5s ha conquistato Torino con una campagna elettorale spensieratamente di ultra sinistra, fatta garrendo bandiere No Tav, No inceneritore e acqua pubblica. Oggi il Movimento e la sindaca appaiono come due organismi separati. La prima, sempre scalpitante ma frenata dalle vicende giudiziarie, è ancora forte di un tenace consenso personale nelle periferie cittadine.
Il Movimento invece si dibatte tra abbandoni a ripetizione, congelato nell’attesa delle scelte romane che diano una linea, un nome. Il tempo passa, loro rimangono fermi, tentati dall’idea di schierare un volto che non disturbi al primo turno, per poi vedere che succede al secondo e magari strappare qualche assessorato al Partito democratico. La sindaca ha voti personali: serviranno.
Il volto moderato
Infine il centrodestra che ha “risciacquato i suoi panni in Po” e si mostra moderato, lontano dalle sparate romane, ricco di candidati in arrivo dal mondo dell’impresa. Fino a pochi giorni fa un solo nome sembrava in corsa: Paolo Damilano, langarolo, imprenditore del settore acque minerali con ramificazioni nella ristorazione torinese, civico ma in quota Lega. Così presentabile da risultare poco accettabile dai notabili torinesi di Fratelli d’Italia, che lo “accusavano” di intelligenza con il nemico.
Vicino a Giancarlo Giorgetti, era il volto apprezzabile della destra che bussa alla porta del “sistema Torino”. Poi, negli ultimi giorni, una battente campagna mediatica locale ha rilanciato la figura di Claudia Porchietto, deputata di Forza Italia, di fatto trasformando il centrodestra schierato intorno al nome di Damilano, in un riproposizione del “bellicoso” centrosinistra. Su di lei pendono due pregiudiziali: è di Forza Italia, partito che ha già vinto in regione con Alberto Cirio, ed è, come dice a microfoni spenti un suo collega «un po’ troppo madamin» per l’elettorato delle periferie torinesi.
© Riproduzione riservata