La Cassazione ha smentito quanti, nel governo, ripetono da settimane che i giudici non possono sindacare la definizione dell’elenco dei paesi sicuri operata dall’esecutivo. La Suprema corte ha stabilito che il controllo giurisdizionale può riguardare la legittimità delle valutazioni operate al riguardo nella sede governativa
La pronuncia della corte di Cassazione che ha deciso sulla questione pregiudiziale in tema di paesi sicuri, sollevata dal tribunale di Roma, segna un primo punto a favore dei giudici, smentendo chi nel governo va ripetendo da settimane che il potere giudiziario non può sindacare le scelte del potere esecutivo. La sentenza si riferisce all’elenco di tali paesi contenuto nel decreto interministeriale del 7 maggio, sostituito da un decreto legge di ottobre, con cui il governo ha voluto trasfondere la lista dei paesi sicuri in una norma primaria. Ma il principio affermato dai giudici non cambia.
La decisione
Il tribunale aveva chiesto alla Suprema corte se «il giudice ordinario sia vincolato alla lista dei paesi di origine sicura» definita dallo stato o se debba comunque valutare le effettive condizioni di sicurezza dei paesi inclusi in tale lista. La corte ha stabilito che «il potere di accertamento» del giudice «non può essere limitato dalla circostanza che uno stato sia incluso nell’elenco di paesi da considerare sicuri sulla base di informazioni vagliate unicamente nella sede governativa».
L’inserimento di un paese di origine tra quelli sicuri «non è un atto politico», come tale insindacabile, perché «fuori dal diritto e dalla giurisdizione». Tale inserimento «ha carattere giuridico» perché «è guidato da requisiti e da criteri dettati dal legislatore europeo e recepiti dalla normativa nazionale». Dunque, spetta al giudice «verificare la sussistenza in concreto dei criteri, normativamente predefiniti, che consentono di qualificare un paese come sicuro».
È vero che, nella redazione dell’elenco dei paesi sicuri, il magistrato «non può sostituirsi al ministro degli Affari Esteri» né «può annullare con effetti erga omnes il decreto» contenente detto elenco. Tuttavia, egli «può valutare la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione» e, qualora quest’ultima «contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale», può disapplicare il decreto in base al principio della prevalenza del diritto europeo sulle fonti nazionali, anche di rango primario.
Ancora, a differenza di quanto sostenuto, ad esempio, dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nonché da altri esponenti di governo in occasione delle mancate convalide dei trattenimenti in Albania, il magistrato valuta la sicurezza di un paese non solo quando il richiedente asilo adduca «gravi motivi relativi a una sua situazione particolare». Il giudice è chiamato comunque a verificare la «situazione di ordine generale, concernente intere categorie di cittadini o zone di quel dato paese».
La Corte di giustizia Ue
Posto questo primo principio, per cui i giudici possono disapplicare la normativa contenente l’elenco dei paesi sicuri in caso di “contrasto manifesto” con la disciplina Ue, ora bisognerà attendere che la Corte Ue si pronunci su tale contrasto nell’ambito delle questioni pregiudiziali sollevate da diversi tribunali (Bologna, Palermo, Roma).
Questioni che traggono origine dalla sentenza con cui, il 4 ottobre scorso, la stessa Corte Ue ha stabilito che, per essere designato come “sicuro”, un paese deve esserlo in tutto il suo territorio, in maniera generale e costante.
In particolare, l’11 novembre scorso, il tribunale di Roma ha chiesto alla Corte se sussistano condizioni di “sicurezza” anche se alcune categorie di persone siano a rischio; se il legislatore nazionale possa definire l’elenco dei paesi sicuri con «atto legislativo primario» e «senza rendere accessibili e verificabili le fonti adoperate per giustificare tale designazione», così impedendo a richiedenti asilo e giudici di valutarne la fondatezza; nonché se, «nel corso di una procedura accelerata di frontiera (…), ivi inclusa la fase della convalida del trattenimento», il magistrato abbia il potere di sindacare la sicurezza di un paese.
Il governo e i centri in Albania
Il governo auspicava che la Cassazione affermasse che i giudici non possono intervenire sulle decisioni del governo in tema di paesi sicuri. Ciò avrebbe riaperto ai migranti le porte dei centri albanesi, su cui l’esecutivo si gioca la propria reputazione: dopo i primi 12 migranti rimandati in Italia a metà ottobre, l’11 novembre il tribunale di Roma aveva sospeso la convalida del trattenimento di altri 7 migranti, anch’essi trasferiti in Italia, e poi sollevato la citata questione pregiudiziale dinanzi alla Corte Ue.
Quest’ultima si esprimerà nei primi mesi del 2025. Fino ad allora i centri in Albania resteranno vuoti. Ma continueranno a essere pagati con i soldi dei contribuenti. Comunque si risolva la questione giudiziaria, la questione economica per i cittadini italiani è già una perdita accertata.
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