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Dall’inizio della legislatura, l’esecutivo Meloni è sempre stato allergico ai sindacati di altri enti sul suo operato
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Da Bankitalia alla Corte dei conti fino ai burocrati su cui usare «il machete», il fastidio è sempre stato manifesto
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Del resto, considerare i controlli dello stato – siano essi sui risparmi privati o sui fondi pubblici – come disturbi al manovratore è un elemento costante del governo
In otto mesi di governo, un profilo dell’esecutivo Meloni è emerso in maniera più preponderante degli altri: l’allergia ai controlli. Nelle ultime settimane è risultato più eclatante dopo lo scontro con la Corte dei conti, ma a ben vedere i semi di questo fastidio nei confronti di tutte le autorità non allineate all’esecutivo è emerso sin dai primi passi di Giorgia Meloni.
Considerate come fastidiosi grilli parlanti, il tentativo è stato quello di silenziarle. Oscure manine, anonimi burocrati, sabotatori occulti: ogni volta che qualche ente si è azzardato a muovere un rilievo, subito è stato trascinato nella polemica politica e considerato una sorta di avversario o di opposizione.
Pizzo di stato
La prima a tradire questa visione è stata la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Sempre attenta a non esagerare quando parla in sede istituzionale, si è invece lasciata trascinare dal palco di Catania, dove è volata per sostenere il candidato sindaco di centrodestra alle amministrative di fine maggio.
A sfuggirle, galvanizzata anche dalla folla, è stato uno dei luoghi comuni più riconoscibili del centrodestra, a partire da quello berlusconiano: l’avversione per le tasse, con un ripescaggio della retorica della loro vessatorietà per i piccoli imprenditori ed elettorato di riferimento.
«L’evasione devi combatterla dove sta: big company, banche, non sul piccolo commerciante a cui chiedi il pizzo di stato solo perché devi fare caccia al reddito più che all’evasione fiscale», ha detto Meloni dalla Sicilia, dove definire le tasse un pizzo, e dunque lo stato alla stregua della mafia, ha un peso specifico anche maggiore che altrove. «Ho solo detto che la caccia al gettito è sbagliata», ha provato a difendersi dopo, ritornando nei panni istituzionali, ma senza rimangiarsi nulla, nemmeno il lessico.
Del resto, considerare i controlli dello stato – siano essi sui risparmi privati o sui fondi pubblici – come disturbi al manovratore è un sottotesto costante.
Corte dei conti
Politicamente, il Pnrr è la sfida più ardua per l’esecutivo e l’incubo peggiore è quello di non riuscire a mettere a terra tutti i fondi, che oggi sono la ragione principale del volano positivo dell’economia.
L’esecuzione è importante quanto la narrazione e per questo il governo non accetta né interferenze né critiche. La strada maestra per procedere più rapidamente è stata considerata quella di ridurre al minimo i lacci e lacciuoli dei controlli, considerati inutile burocrazia preventiva. Soprattutto se le relazioni che espongono le criticità nella spendita dei fondi diventano pubbliche.
In questo disegno si è inserita la cancellazione del controllo concomitante sul Pnrr da parte della Corte dei conti, come anche la proroga dello scudo fiscale che solleva gli amministratori pubblici dalla colpa grave commissiva in caso di danno erariale.
I due emendamenti devono essere approvati definitivamente in Senato, ma il governo ha già posto la fiducia e ormai sono considerati cosa fatta, con l’aggiunta del volontario sgarbo istituzionale di averli proposti il giorno prima del vertice fissato tra palazzo Chigi e il presidente Guido Carlino.
I controlli sul Pnrr certo non si esauriscono con la Corte dei conti, ma il vaglio decisivo sarà quello europeo, inoltre la magistratura contabile continua a mantenere le sue prerogative di controllo successivo. Tuttavia, il tenore dei rapporti tra controllati e controllori è tracciato.
Il machete sui burocrati
Il fastidio per quelli che nella narrazione del governo sono oscuri burocrati di Stato, del resto, deriva da uno dei ministri più vicini a Meloni come Guido Crosetto. Il titolare del dicastero della Difesa, normalmente d’indole gentile, ha mostrato il suo volto più arcigno quando gli è stato chiesto il suo parere sulla macchina statale.
«Non si può pensare di fare politiche nuove e diverse, se nei posti chiave tieni funzionari che hanno mentalità vecchie o servono ideologie di cui noi rappresentiamo l’alternativa», ha detto al Messaggero, spiegando la sua ricetta per ridurre a quattro anni il tempo di realizzazione di un’opera pubblica: «Bisogna usare il machete contro chi nelle amministrazioni pubbliche si è contraddistinto per la capacità di dire no e perdere tempo».
Una categoria, quella dei burocrati, che nell’immaginario del governo comprenderebbe un po’ di tutto: magistratura, funzionari amministrativi e dirigenti, pronti a ricordare che esistono dei vincoli alla discrezionalità dell’esecutivo e che il sistema istituzionale è fatto di pesi e contrappesi.
Tra questi enti c’è anche l’Anac, l’autorità amministrativa indipendente che si occupa di anticorruzione.
È vissuta con gran fastidio in particolare dal ministro per i Trasporti, Matteo Salvini. Ha infatti mosso una serie di osservazioni al nuovo codice degli appalti pubblici – ribattezzato dal ministro “codice Salvini” – in particolare per quanto riguarda l’innalzamento delle soglie per affidare i lavori senza gara.
Detto fatto: alle osservazioni Salvini ha risposto chiedendo le dimissioni del vertice dell’Anac, Giovanni Busia. Ora sotto la lente di Anac è finito in particolare il progetto che è ormai considerato il totem del leghista, quasi più dell’autonomia differenziata: la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, chimera dei governi Berlusconi, tanto da entrare nel lessico comune come metafora di irrealizzabilità.
Anac ha proposto una serie di suggerimenti di emendamento al decreto, tutti rifiutati dal governo che ha deciso di proseguire per la sua strada.
Meglio i contanti
Primo seme nella direzione di allontanare ogni tipo di controllo, tuttavia, si può rinvenire già nel primo discorso al parlamento della neopremier Meloni, in cui ha indicato come scelte politiche del governo l’innalzamento del tetto al contante a 10mila euro e l’eliminazione dell’obbligo del Pos fino a 60 euro.
Su entrambe c’è stato poi un dietrofront, ma certamente non fatto a cuor leggero. Anche in questo caso, segnali di allarme erano arrivati da un istituto di diritto pubblico come la Banca d’Italia, al momento dell’esame della prima manovra di bilancio del governo. «Le misure vanno in direzione contraria alla modernizzazione del paese, che è strettamente connessa con la riduzione dell’evasione fiscale», aveva detto Fabrizio Balassone, capo del servizio Struttura economica del dipartimento Economia e statistica di via Nazionale, in audizione sulla legge finanziaria.
A cui è seguita la risposta sprezzante del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari: «Che la manovra non piaccia a sindacati, Confindustria e Bankitalia, è un buon segno», anche perchè «Bankitalia è partecipata da banche private».
Poche ore dopo, il dietrofront per evitare frizioni istituzionali. Tuttavia, da ottobre ad oggi, il riflesso incondizionato del governo è sempre lo stesso: alle osservazioni critiche si risponde con gli attacchi e, dove possibile, con il ridimensionamento.
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