C’è una sottile linea rossa che separa un gruppo parlamentare plurale, costruito con le “liste aperte” delle europee, da un gruppo misto. In uno dei primi voti dell’Europarlamento, sul punto otto della risoluzione adottata giovedì scorso sull’abolizione delle restrizioni all’uso delle armi occidentali da parte dell’esercito ucraino, il Pd è andato pericolosamente vicino a quella linea rossa. Si è fatto in quattro: due eurodeputate hanno votato sì (Gualmini e Picierno), la maggioranza del gruppo ha votato no, una minoranza non ha votato, un paio di eurodeputati erano assenti.

Non c’è da farne un dramma, quel voto non va sovrastimato: la risoluzione non era vincolante, e comunque i socialisti europei hanno compensato la diserzione dei democratici italiani. Del resto la segretaria Elly Schlein da tempo ha segnato il limite del sostegno a Kiev da parte del suo partito: dentro i propri confini può difendersi, oltre no, almeno non in nome del Pd. Al di là del merito della scelta – un merito che però non ha meritato una discussione pubblica: non si capisce perché Zelensky non dovrebbe provare a far saltare gli avamposti dell’offensiva russa, cosa che per fortuna invece fa – resta agli atti la posizione variegata, dunque incerta, del Pd. Che viene dopo una posizione variegata e incerta sulla nuova Commissione europea.

È vero, come spiegano alcuni eurodeputati dem, che il voto sulle armi a lungo raggio ha un aspetto positivo: è un passetto in direzione degli alleati M5s e rossoverdi, almeno in Europa (lì i centristi non ci sono). Ma la cortesia non sarà ricambiata. E affidarsi al cielo per sperare che le distanze sull’Ucraina si accorceranno fa pensare a un miracolo più che a una strategia.

La vicenda può essere oggetto di riflessione per una coalizione che aspira ad avere una cultura di governo, e che si vuole presentare alla riconquista del suo elettorato con le credenziali di credibilità e affidabilità. L’esame di credibilità non inizierà quando le elezioni politiche saranno indette. È già iniziato. La reputazione della futura coalizione è già in costruzione. La ricreazione, insomma, è finita.

Schlein è la leader della coalizione, i galloni se li è guadagnati sul campo delle europee. Ma il risultato di quel voto, quell’“imprevisto” 24,1 per cento che ha costituito la sua laurea da federatrice, è solo l’inizio. Nel 2014 il Pd alle europee aveva preso il 40,8 per cento. Matteo Renzi era premier e segretario del Pd. Dopo due anni non era più premier e si avviava ad avere un brillante futuro (politico) dietro le spalle. Dunque Schlein presto dovrà decidersi a far pesare la sua leadership (perché a tempo dovuto diventi “premiership” come si diceva ai tempi dell’Ulivo).

L’alleanza

Per la costruzione dell’alleanza il momento è complicato. Da una parte le forze dell’opposizione possono, anzi debbono, convergere su singoli temi in parlamento per modificare la manovra. Possono e debbono costruire il fronte referendario, e incardinare una battaglia campale sull’autonomia differenziata. Possono e dovrebbero vincere in tre regioni (solo una già governata dalla sinistra), tentare lo scacco alla regina Meloni.

D’altra parte Cinque stelle e centristi sono risucchiati in gorghi difficili. Al di là delle professioni alleanziste, Giuseppe Conte scarica sul Pd i suoi guai interni, per evitare di essere accusato di resa all’alleato maggiore. Lo stesso fa Carlo Calenda, che perde parlamentari dalla carlinga: giura e rigiura che per lui esistono solo convergenze su singole battaglie, ma il centrosinistra non esiste e se esiste non è affare suo.

Quanto a Renzi, l’ostilità che si è guadagnato nell’elettorato di sinistra è un fatto, se ha avuto davvero un ripensamento operoso rispetto alla coalizione deve rassegnarsi a cambiare maniere anche con gli alleati, incluso l’esecrato Conte; altrimenti il suo ritorno è solo un deliberato fattore di entropia.

È comprensibile che Schlein voglia tenersi alla larga da queste vicende per costruirsi la sua reputazione e la sua forza. Ma restando così al di sopra dell’alleanza rischia di dare l’idea di non avere presa. Infatti ha lanciato agli alleati la proposta di una piattaforma comune in cinque punti (la politica estera non è fra questi cinque), e non ha ricevuto alcuna risposta. Sappiamo che sente gli altri segretari con frequenza. Ma se va costruito un popolo di centrosinistra, come è stato quello dell’Ulivo, un qualche segno unitario va pur dato. Da subito.

Schlein vs Meloni

Va detto che per Schlein condurre le danze è molto più complicato che per Giorgia Meloni. Il paragone fra le due leadership non ha senso: la premier governa, quindi può comandare (sempreché sappia farlo, le divisioni europee autorizzano dubbi, e anche i continui testacoda di alcuni ministri italiani). La spartizione del potere è un principio d’ordine formidabile.

Schlein non può comandare. Deve convincere gli alleati, per ora allo stato di alleabili, a costruire o ricostruire i propri partiti ma non a danno della coalizione; e nel frattempo a costruire anche un popolo comune, una storia comune. Meloni può tuttora contare su un solido elettorato, sul favore di un blocco economico (lo si è visto all’ultima assemblea di Confindustria), su un’amica a Bruxelles, e forse persino su un colpo di fortuna atlantico. Se il centrosinistra vuole davvero vincere, per trattenere la democrazia italiana dal risucchio indietrista in cui viene condotta dalla destra (dallo spezzettamento del paese al premierato, fino alla stretta dell’inciviltà del decreto sicurezza, che criminalizza il dissenso e persino il digiuno nelle carceri) e ricollocarla fra le grandi democrazie europee, non c’è altra strada che spiegare alla classe dirigente del centrosinistra che la prossima Italia si fa da subito. Perché invece se ne sente di conversari riservati in cui il papabile di turno si balocca a fantasticare di ministeri.

Il centrosinistra non ha già vinto, e la pratica furbetta della sfida interna non è l’anticamera della vittoria.

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