Lo stato dei rapporti è tornato a due anni fa, dopo la caduta di Draghi. Eppure Pd e sinistra restano leali a Conte. La partita del giurì d’onore
La finestra del litigio fra Elly Schlein e Giuseppe Conte resterà aperta o si è già richiusa? È già chiusa, almeno nelle intenzioni del Nazareno. Dopo l’accusa di «bellicismo» all’indirizzo del Pd e la prima risposta severa della segretaria, salutata con soddisfazione da tutte le componenti interne – che del resto l’hanno costretta a prendere la parola dopo una rivolta che aveva l’aspetto di un ammutinamento generale – la linea torna quella di prima. Anzi di sempre.
«Per litigare bisogna essere in due. Da quando sono segretaria sfido chiunque a trovare una polemica fatta contro le altre opposizioni mentre il governo taglia la sanità pubblica», ha spiegato Schlein mercoledì sera a una platea di attivisti Lgbt e di militanti del Pd che ha affollato la Feltrinelli di via Appia nuova a Roma per il lancio del libro di Alessandro Zan (E tu splendi, invece).
Quindi, ha continuato, «esigiamo il rispetto per la comunità democratica e non i continui attacchi e le mistificazioni» – qui è arrivato un eloquente applauso liberatorio – ma «continueremo a lavorare in maniera unitaria. Abbiamo le nostre differenze, ma a me interessa che raccontiamo che un’alternativa è possibile se ci mettiamo a lavorare sulle tante battaglie che stiamo conducendo insieme. Non si deve fare politica guardando nello specchietto retrovisore».
Il giurì della discordia
Fin qui i buoni propositi di Schlein, che in questi giorni si è inzeppata l’agenda di iniziative (ieri ha parlato alla Camera alla commemorazione di Luigi Berlinguer) come chi prende la rincorsa per lanciarsi in prima persona nella competizione delle europee.
Il Pd e la sinistra restano leali con il loro ex premier, e a dimostrarlo probabilmente sarà il verdetto del gran giurì da lui chiesto sulle parole di Giorgia Meloni a proposito di un Mes firmato in Europa «con il favore delle tenebre». Ieri i cinque componenti (tre di maggioranza, il presidente Mulè, forzista, il leghista Cecchetti, e il moderato Colucci; e due di opposizione, Vaccari del Pd e Zaratti di Avs) hanno «condiviso» la prima parte del verdetto, e cioè la ricostruzione storica degli eventi. Conte ne uscirebbe più che vincitore. Ma sulla seconda parte, quella delle valutazioni politiche, che favorirà Meloni, è molto probabile un voto a maggioranza.
I nostalgici si rassegnano
Però lo stato dell’opposizione è sotto gli occhi di tutti: i rapporti fra Pd e M5s sono tornati all’anno zero, e cioè al giorno in cui Conte ha tolto l’appoggio al governo Draghi. Si rassegnano all’evidenza persino i fedelissimi del «campo largo». Che continuano a fare professione di giallorossismo, ma per atto di fede. Come ieri l’ex ministro Speranza: «L’alternativa c’è già stata: il governo giallo-rosso». Un paradiso perduto. Dove però a comandare a palazzo Chigi era lui, Conte. Un dettaglio a cui i nostalgici non vogliono dar peso.
Anche il rossoverde Nicola Fratoianni, che della maggioranza draghiana non ha mai fatto parte, e che nel merito delle questioni spinose è più vicino alle posizioni dei M5s, ieri su La7 è sbottato: «L’opposizione è in una condizione di significativa insufficienza». E se le europee, con il proporzionale, sono un terreno di competizione, «segnalo a tutti i nostri interlocutori e interlocutrici del campo alternativo alle destre che a giugno si voterà in 3.800 comuni e in due regioni».
Ma a rallentare gli accordi è Conte. Proprio come ha fatto sul tavolo della sanità, che non è mai arrivato a una proposta comune. Il famoso «metodo salario minimo», l’unica battaglia unitaria delle minoranze in parlamento, è rimasto lettera morta. L’andamento lento dei tavoli per le regionali stanno lì a dimostrarlo: Conte ha chiuso l’alleanza solo per la Sardegna, dove il Pd ha accettato senza fare una piega la corsa da presidente della grillina Alessandra Todde. E in Abruzzo, dove il civico Luciano D’Amico comunque non ha molte chance di vittoria. Dove il Pd intravede invece la possibilità di stare in partita con un suo nome (Piemonte, Basilicata), Conte, come Jep Gambardella, più che partecipare alla festa, si gode il potere di farla fallire.
Schlein però non cambia linea. A un collega con cui nelle scorse ore ha parlato proprio del rapporto con il leader M5s, ha spiegato che «il Pd resterà comunque unitario». Perché, ne è convinta, prima o poi, certo dopo le europee, «lui sarà costretto dal suo elettorato a cercare un’alleanza con il Pd. Perché se non lo facesse si assumerebbe la responsabilità di far vincere di nuovo la destra».
Il precedente Letta
Tutto chiaro. Se non fosse che Conte l’ha già fatto, proprio nel luglio 2022, quando ha tirato un assist a Lega e Forza Italia, che hanno finalizzato il gol e buttato giù Draghi.
L’uomo giusto per dare a Schlein un consiglio sarebbe Enrico Letta, il suo predecessore al Nazareno che ha inaugurato la regola del «pas d’ennemis à gauche», ovvero dal lato M5s, sin dalla sua elezione a segretario del Pd. Anche lui a lungo è stato contrario a pronunciare i famosi «no che aiutano a crescere» all’indirizzo di Conte. È finita in quell’estate 2022 chiuso in una stanzetta del Senato, con il leader M5s sordo alle sue preghiere. Come qualche giorno prima non aveva ascoltato l’avviso, pubblico, di Dario Franceschini: «Se ci sarà una rottura o una distinzione per noi porterà alla fine del governo e all’impossibilità di andare insieme alle elezioni».
Letta non vuole parlare di quella sua ostinazione unitaria non corrisposta. Ma la sua ex portavoce Monica Nardi, oggi consulente di comunicazione, ormai crede che quello fra Pd e M5s sia un amore nato a cattiva stella. «Il 2022 fu costellato da bandierine rosse: dalla sponda cercata da Conte con Salvini sul Colle alle ambiguità su Putin e Ucraina. Non è che il Pd non le vedeva. È che cercammo di far prevalere le ragioni dell’alleanza», dice, ed è la situazione tale e quale a quella di oggi. «Fino a quando Conte decise di far cadere il governo e portare il paese alle urne. Ora di red flag ce n’è una al giorno. Prima si mette fine a questa relazione tossica, prima il Pd si rialza e esce da questo limbo in cui è precipitato nel 2019. Perseverare è un mix di autolesionismo e coazione a ripetere».
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