- Il Pd è un partito che fugge dal passato, che non abita il presente, e che corre verso il futuro illudendosi che ogni tempo nuovo sia di per sé un tempo più facile e più benigno di quelli appena lasciati alle spalle.
- Chi non ha idea della rotta che sta alle proprie spalle finisce per non avere altrettanta idea dell’orizzonte che ha davanti a sé. E così si dimena, si affanna, si improvvisa, si protende verso il baratro.
- Quando un partito perde il legame con la propria tradizione, con le proprie radici, finisce per perdere tutto. E quella sua rincorsa verso la propria novità si rivela infine come un inconsapevole precipizio.
Il Pd è un partito trafelato. E con questo mi sembra di aver detto – quasi – tutto. Un partito che fugge dal passato, che non abita il presente, e che corre verso il futuro illudendosi che ogni tempo nuovo sia di per sé un tempo più facile e più benigno di quelli appena lasciati alle spalle. Cosa che non è, e si vede.
C’è come una sensazione di affanno in questo continuo trascorrere da una stagione all’altra. Quasi che la disinvoltura con cui ci si reinventa – meglio: prova a reinventarsi – fosse l’elisir della propria giovinezza politica e della propria innocenza etica.
Da questo punto di vista il fatto che il più attempato dei capicorrente si erga a discreto patrocinatore di una candidata così inedita da essersi iscritta appena da poche ore al partito che vuole guidare è un segno. Non l’unico, peraltro. È come se la spericolatezza fosse rimasta l’unica virtù a disposizione.
Un legame con il tempo
Il fatto è che invece un partito è sempre e sopra ogni altra cosa un legame con il tempo. Supplisce alla propria inevitabile parzialità, al proprio carattere divisivo, collegando tra loro le diverse stagioni che attraversa: le radici, l’insediamento, la prospettiva.
Il senso di un partito è unire le generazioni nel nome di un’idea. Se invece quel passaggio generazionale si smarrisce, finisce per smarrirsi anche quel tanto di virtù che una forza politica ha il privilegio di ereditare e il dovere di trasmettere.
Non è un caso che le parole più profonde sulla crisi del Pd vengano da dirigenti non più nel fiore degli anni – sia detto con il dovuto riguardo per ciascuno di loro. Saggi di antico lignaggio come Rino Formica. Studiosi di scrupolosa onestà intellettuale come Arturo Parisi. E gente di valore politico come Pierluigi Castagnetti, Claudio Petruccioli, Goffredo Bettini.
I quali dicono cose che personalmente condivido solo in parte, a volte piccola e piccolissima parte. Ma che hanno dentro il respiro della storia: la consapevolezza cioè di non esser nati in un campo incolto e disabitato, ma di doversi piuttosto raccordare a famiglie che risalgono il tempo, mai prive di una certa nobiltà spirituale. Laddove magari si è litigato. Ma senza aver dimenticato il proprio faticoso retaggio.
Un fardello troppo pesante
È l’affanno la cosa che colpisce invece nelle parole d’ordine dei più giovani. Come se per la maggior parte di loro la storia fosse un fardello troppo pesante, e l’unica possibilità risiedesse nel cercare una via di fuga. Verso dove, non si sa.
Ora, è chiaro che il Pd paga un tributo alle sue stesse origini. La pretesa di mettere tutti insieme si è rivelata una sfida agli dei della politica. O almeno, ai loro sacerdoti comunisti, socialisti, democristiani. È evidente che quella illusione di mescolare culture che per anni e anni erano state agli antipodi e che avevano faticato così tanto per avvicinarsi appena un pochino, quella illusione – dicevo – si è rivelata troppo onirica, troppo astratta per essere concretamente condivisa dalle persone a cui era rivolta. Come a voler tentare un’acrobazia che le leggi della fisica avrebbero sconsigliato e che le leggi della politica, quasi altrettanto rigorose, hanno poi sanzionato.
Ma una volta che si è tentato di intraprendere questa strada si doveva almeno cercare di percorrerla. E invece a un certo punto si è scelto di lasciarla a metà, illudendosi che da qualche altra parte – chissà dove – si potesse trovare un percorso più comodo che avrebbe portato da qualche parte. Così è cominciata appunto una corsa sfrenata in direzione del nulla.
Il partito che saltella
È proprio qui che la strada si perde nel vuoto. E infatti chi non ha idea della rotta che sta alle proprie spalle finisce per non avere altrettanta idea dell’orizzonte che ha davanti a sé. E così si dimena, si affanna, si improvvisa, si protende verso il baratro.
È il partito trafelato che prende il posto della forza pensosa – fin troppo pensosa e consapevole – che aveva promesso di essere. Così, al partito che cammina, un passo dopo l’altro, cercando di disegnare una traiettoria, si sostituisce il partito che saltella. Ricadendo senza volerlo sempre al punto di prima.
Il fatto è che quando un partito perde il legame con la propria tradizione, con le proprie radici, finisce per perdere tutto. E quella sua rincorsa verso la propria novità si rivela infine come un inconsapevole precipizio. Non è il primo caso, e magari non sarà l’ultimo. Ma è un caso di scuola.
Personalmente, ho il ricordo della fine della Dc. Si volle cambiare nome, e forse non fu l’idea migliore. Ma si ebbe almeno la consapevolezza che per un tratto di storia che si voleva archiviare, c’era un altro tratto di storia – quella del popolarismo, di Luigi Sturzo, delle origini insomma – che si voleva cercare di recuperare. Almeno quello. Qui invece si fa a gara a chi archivia per primo il proprio retaggio. Correndo infine verso il nulla, temo.
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