Come diceva Totò, «ogni limite ha una pazienza». E quella di Elly Schlein si è esaurita. Dopo aver sopportato con calma olimpica le bizze di Giuseppe Conte, ha detto basta. Il rapporto con i Cinque stelle si è usurato oltre misura nell’ultimo mese e, questa volta, non per responsabilità dei democratici.
Il filo si potrà riannodare più avanti dopo le elezioni europee, ma a patto che non producano risultati deflagranti, vale a dire una vittoria netta dell’uno o dell’altro partito. Se il Pd distacca il M5s, o viceversa, la ricomposizione dell’alleanza torna in alto mare perché nessuno dei due vorrà sentirsi un junior partner.
Questo vale soprattutto per i democratici: essere superati dai pentastellati comporta una implosione finale. Dopo che Enrico Letta aveva raccolto i pezzi di un Pd in crisi di nervi, abbandonato d’un tratto dal suo segretario di allora, Nicola Zingaretti (che dichiarava di vergognarsi del proprio partito senza però trarne le dovute conseguenze), e dopo che Schlein ha ridato spinta a un partito di nuovo in confusione (forse perché non aveva perso rispetto alle elezioni precedenti?), il Pd non può permettersi un’altra crisi. Questa volta non ci sarebbero più rimedi possibili.
L’agenda politica
Per scongiurare uno scenario così cupo, se hanno senso consigli non richiesti, la leadership piddina potrebbe prestare maggiore attenzione a due aspetti.
Il primo riguarda l’agenda politica. C’è troppo e troppo poco allo stesso tempo. In linea con la tradizione di partito “naturale” di governo, il Pd si occupa di tutto, mettendo in campo le tante competenze di cui dispone, e ne dispone in misura incomparabile rispetto agli altri.
Ma questa abbondanza di risorse tecnico-intellettuali crea un effetto supermercato in cui ognuno trova il suo prodotto, magari in contrasto con altri, e allo stesso tempo è disorientato dall’abbondanza della offerta.
Meglio sarebbe concentrarsi su alcuni temi caratterizzanti e martellare su quelli, in modo che l’elettore medio sappia subito dire cosa vuole il partito. Ad esempio, alzare i salari. Joe Biden si era presentato ai cancelli della General Motors con il cappellino del sindacato calcato in testa, sostenendo apertamente l’aumento del 42 per cento della retribuzione richiesto dai lavoratori in sciopero.
Chissà quanto strillerebbero al bolscevismo i cosiddetti riformisti di casa nostra se Schlein battesse con decisione questo tasto. O, quanto meno, parlerebbero di sudditanza al sindacato. Ci vogliono convinzione e coraggio per andare contro la corrente mediatica.
Lavoro ed economia
Però dovrebbero confortare, in questa (eventuale) scelta, le preferenze dell’opinione pubblica rilevate dai vari sondaggi. Su questo giornale, tempo fa, Enzo Risso evidenziava come i temi economici siano, di gran lunga, al primo posto nell’agenda mentale dei cittadini.
La stesse priorità sono confermate oggi dall’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro: il lavoro e l’economia stanno in cima alle preoccupazioni degli italiani. Ma per rendere merce corrente nel dibattito pubblico i propri temi serve un motore che li sospinga; in altre parole, un partito che funzioni.
Schlein è ancora molto indietro su questo versante. Il motore viaggia al minimo e non è stato investito né dal rinnovamento annunciato – da cui i grippaggi pugliesi – né da una sua rimobilitazione: nessun investimento nel rilancio delle strutture di base e delle attività territoriali, nessun coinvolgimento dei militanti e dei responsabili locali, e una cinghia di trasmissione centro-periferia sostanzialmente ferma. L’urgenza dell’appuntamento elettorale dovrebbe consigliare una decisa accelerazione su entrambi i piani.
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