- Sono stati fatti dei parallelismi fra la sconfitta elettorale del Pd e quella dei socialdemocratici in Svezia. Ma la situazione italiana presenta alcune peculiarità
- La crisi della sinistra ha radici profonde. Non ci si può fermare alla leadership di Letta, è necessario individuare la responsabilità di icone come i segretari del Pci Togliatti e Berlinguer
- La lunga storia di ostilità ai socialdemocratici nel Pci è uno degli elementi scatenanti delle contraddizioni interne e continue crisi di identità che caratterizzano i dem
Per valutare la portata della sconfitta della sinistra alle ultime elezioni non basta guardare solo alla gestione-Letta ma è necessario individuare le responsabilità che rinviano a grandi icone come Palmiro Togliatti o Enrico Berlinguer. La sconfitta dei socialdemocratici in Svezia e il successo di una coalizione che includerà un partito di destra radicale ha fatto pensare che la delegittimazione delle sinistre costituisca una tendenza che riguarda l’Europa nel suo complesso.
La vicenda italiana potrebbe dunque collocarsi entro tale contesto. Carlo Trigilia ha rilevato, su queste colonne (16 settembre), che si possono sicuramente ravvisare delle analogie fra paesi così lontani, ma bisogna anche evidenziare le differenze. Per coglierle occorre guardarsi un po’ indietro.
Radici profonde
È noto che per la Terza Internazionale, come per Togliatti e per i Partiti comunisti europei che in Mosca si riconoscevano fideisticamente, i socialdemocratici rappresentavano i “socialtraditori”, che avevano voltato le spalle alla rivoluzione per venire a patti con la borghesia. Da questa condanna togliattiana non si salvò Filippo Turati, e non si salvò Carlo Rosselli, l’autore di Socialismo liberale, ucciso dai fascisti in Francia nel giugno del 1937 insieme al fratello Nello.
Dopo la morte di Togliatti, nel 1964, Giorgio Amendola scriveva su Rinascita che bisognava lavorare per la formazione di un grande partito unico del movimento operaio, in cui insieme ai socialisti e ai comunisti, potessero ritrovarsi figure come Norberto Bobbio, che rappresentavano l’eredità della “Rivoluzione liberale” di Piero Gobetti, e dell’azionismo. L’apertura verso aree politiche non marxiste era sgradita al gruppo dirigente del Pci, solidamente ancorato al centralismo democratico e la risposta di Luigi Longo, successore di Togliatti, fu chiara: i comunisti non potevano diventare un qualsiasi partito socialdemocratico.
L’orientamento di Berlinguer
Tale orientamento fu mantenuto successivamente da Berlinguer, nonostante egli vedesse poi la soluzione della crisi italiana nella collaborazione fra le forze comuniste, cattoliche e socialiste. Anche dopo la fine dell’illusione del “compromesso storico”, Berlinguer continuò però a credere che le società socialiste esprimessero una superiorità morale su quelle occidentali, considerate decadenti e corrotte. Il mito dell’Homo sovieticus non cessava evidentemente di esercitare il suo fascino.
La storia del Pci ha proceduto parallelamente alla storia dell’Unione Sovietica: il rifiuto di abbandonare il modello marxista-leninista ha impedito a vasti settori della sinistra italiana di sentirsi in sintonia con le socialdemocrazie europee per le quali, come avrebbe sostenuto il grande leader socialdemocratico svedese Olof Palme, il capitalismo è una pecora che va tosata, non va abbattuta.
In altre parole, si può essere socialisti senza essere marxisti, come scriveva Luciano Pellicani, che guardava a Berlino e a Stoccolma più che a Mosca. Se la socialdemocrazia tedesca abbandonò il marxismo-leninismo nel 1959, i comunisti italiani dovettero attendere il 1981 per sentire dal loro segretario, Berlinguer, che la capacità propulsiva di rinnovamento delle società dell’est europeo andava esaurendosi.
Fra Veltroni e D’Alema
Quando il Pci cessa di esistere con l’implosione del comunismo, nel 1991, la sua pesante eredità viene raccolta dal Partito democratico della sinistra, non più comunista, ma non propriamente socialdemocratico. Tutto ciò comportò una vaghezza nei programmi e nell’azione politica e le contraddizioni divennero evidenti quando alla proposta dalemiana di orientarsi in direzione socialdemocratica si contrappose il progetto di Walter Veltroni, che, affascinato dalla figura di Kennedy, ma anche da Clinton e da Blair, indicava un’altra via, guardando al partito democratico americano.
Non si giunse ad alcuna conclusione, come dimostra il fatto che nel 1998 al cambiamento di nome, da Partito democratico della sinistra a Democratici di sinistra, non corrispose una chiarificazione della linea politica. Le cose non migliorarono in seguito alla fondazione del Partito democratico, nel 2007. Si trattava di un organismo nel quale coesistevano, senza giungere a sintesi, tracce del Pci, della Dc, e correnti ambientaliste. È in questo quadro, sommariamente delineato, che dobbiamo leggere oggi le sollecitazioni che da più parti spingono verso uno scioglimento del Partito democratico. Se appare evidente che in Europa, e non solo, prevale un’avanzata delle destre sulle formazioni politiche attente alla distribuzione della ricchezza, appare altrettanto evidente che tale fenomeno non si manifesta dappertutto allo stesso modo.
La sconfitta della socialdemocrazia svedese, che ha da sempre rappresentato l’esempio più virtuoso di come si possa garantire un equilibrio tra mercato e giustizia sociale, ha dimostrato come le spinte populiste e la diffusa paura dell’immigrazione non risparmino neanche le democrazie più consolidate.
Un progetto evanescente
Come ha però messo in rilievo Carlo Trigilia su Domani, la sconfitta dei socialdemocratici svedesi non ha prodotto in loro una crisi di identità e a nessuno è venuto in mente di sciogliere il partito in seguito a un risultato insoddisfacente. Ciò può accadere da noi proprio perché l’incapacità di aprirsi laicamente alla socialdemocrazia da parte dei comunisti ha privato per lungo tempo la sinistra italiana del confronto con gli aspetti più vitali del riformismo europeo. L’evanescenza dei progetti che ne sono derivati dopo il 1989 è sotto gli occhi di tutti.
È apparso poco credibile che gli eredi di un movimento ostile in passato alla socialdemocrazia si convertissero in modo spregiudicato, e tra vari cambi di nome, ai paradigmi del mercato, accogliendo disinvoltamente politiche del lavoro che della precarietà hanno fatto una regola. Perché, a questo punto, il tradizionale elettore di sinistra avrebbe dovuto scegliere un partito che faceva propri i metodi di quel neoliberismo contro cui da sempre aveva combattuto? E perché l’elettore moderato avrebbe dovuto sentirsi vicino a una copia e non scegliere “l’originale”, cioè quei partiti che in tali metodi si riconoscevano da sempre? Dopo le scissioni di Matteo Renzi e Carlo Calenda, dopo le scelte di Giuseppe Conte, il destino del Pd, in seguito ai deludenti risultati delle recenti elezioni, appare decisamente incerto. Le sue componenti di sinistra saranno infatti sempre più attratte dalle sirene populiste del Movimento Cinque stelle, mentre a destra le componenti liberali e tecnocratiche avranno un punto di riferimento in Calenda e Renzi.
E il Pd? Un partito socialdemocratico avrebbe potuto cogliere, come accadrà sicuramente in Svezia nonostante la recente sconfitta elettorale, l’opportunità di elaborare un welfare adeguato al momento in cui ci troviamo. Il Pd si è rivelato invece incapace di elaborare le tradizioni politiche che avrebbero potuto renderlo oggi credibile. I dubbi amletici di molti suoi esponenti, che si chiedono se è meglio essere o non essere stanno lì a testimoniarlo.
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