- Gli editorialisti della grande stampa e i custodi dell’ortodossia liberale erano convinti della vittoria di Bonaccini alle primarie. Ma la crisi economica, la pandemia e la guerra in Ucraina hanno radicalizzato le richieste degli elettori progressisti
- La loro cecità non è stata frutto di incapacità, ma di una scelta. Ora Schlein dovrà incarnare il vero riformismo socialdemocratico, come negli Stati Uniti, in Spagna, in Portogallo e in Germania
- Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
L’elezione di Elly Schlein alla segreteria del Pd è stata una sorpresa, probabilmente anche per l’eletta. Buona parte dei sondaggi e degli opinionisti la davano infatti per sconfitta contro Stefano Bonaccini.
L’uomo di apparato, forte della propria esperienza amministrativa, che si presentava come il candidato “pragmatico”, il politico “del fare” che non ha tempo da perdere con le “anime belle” e gli intellettuali.
In realtà, come ha mostrato il risultato, Bonaccini si era fatto ingannare dai nemici del cambiamento che presidiano buona parte delle pagine degli editoriali della grande stampa, pronti a stroncare qualunque afflato di rinnovamento si affacci all’orizzonte, se non è in linea con il senso comune di una cultura che si presenta come “riformista”, ma ha delle riforme una concezione ormai fuori dal tempo. Inchiodata a una visione che si era affermata nel corso degli anni Novanta, sulla scia del successo di Tony Blair e del suo nuovo Labour, e che aveva visto in Matteo Renzi il suo maldestro interprete.
Secondo i custodi di questa ortodossia ideologica la sinistra non dovrebbe fare altro che introdurre correttivi marginali al modo in cui funziona l’economia di mercato. Farsi carico esclusivamente della crescita, così come la concepiscono buona parte degli imprenditori, e lasciare che siano i lavoratori a preoccuparsi del proprio futuro. Se ne sono capaci, ovvero se sono “meritevoli”, secondo una concezione del merito che premia in modo esclusivo le capacità richieste da un mercato del lavoro asfittico che, per le maggior parte dei giovani, anche quelli meglio qualificati, non offre altro che precarietà, flessibilità, e lavori pagati in modo insufficiente per garantire una vita decente.
Cambiamento ignorato
La frase usata da Schlein nelle prime dichiarazioni fatte all’indomani della vittoria delle primarie è stata, in questo senso, rivelatrice: «Non ci hanno visto arrivare». Vero, ma questa cecità non era frutto di incapacità, ma di una scelta. Quella di ignorare come sia cambiato negli ultimi anni il clima sociale e il panorama delle sinistre in buona parte dei paesi europei e negli Stati Uniti. Gli effetti di lungo periodo della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica hanno infatti impoverito in maniera significativa il ceto medio. Erodendo in misura sempre più marcata quella fiducia nel futuro, nella possibilità di migliorare la propria condizione e quella dei propri figli, che aveva sorretto il patto virtuoso tra Capitale e Lavoro negli anni del “consenso socialdemocratico”.
Le conseguenze della crisi finanziaria, seguita a qualche anno di distanza dagli shock della pandemia e poi della guerra in Ucraina, hanno modificato profondamente gli atteggiamenti di una parte consistente dell’elettorato tradizionale dei partiti socialisti e progressisti, provocando quella fuga che è stata analizzata magistralmente in Italia in un libro recente di Carlo Trigilia (La sfida delle diseguaglianze, Il Mulino, Bologna 2022).
A questo fenomeno il “riformismo” italiano non è riuscito a dare una risposta convincente. Limitandosi a riproporre, in versione leggermente edulcorata, la vecchia idea (della destra statunitense) del “trickle down”, ovvero il gocciolamento verso il basso dei residui della ricchezza che avanzano dopo che coloro che si trovano al vertice hanno assorbito la propria parte.
Un’immagine apparentemente persuasiva, che tuttavia non fa i conti con il fatto che, nella realtà di un sistema economico di impianto neoliberale, chi si trova al vertice controlla tutti i rubinetti, e quindi può modulare a proprio piacimento la quantità di liquido che arriva ai piani bassi. Nessun osservatore in buona fede dovrebbe sorprendersi se ciò che sgocciola è a malapena sufficiente per dissetare chi si trova in basso.
La reazione riformista
Le reazioni al successo di Schlein da parte di questi “riformisti” sono state significative. Alcuni esponenti del “centro” del Pd, in buona parte ex renziani che continuano a comportarsi come se vedessero nel leader di Italia viva, e nel suo scudiero Calenda, i propri punti di riferimento, hanno minacciato di lasciare il partito.
Dai giornali di area, e da buona parte degli editorialisti, è stato aperto un fuoco di sbarramento serrato, i cui toni in qualche caso si distinguono a malapena da quelli usati dalla destra. Schlein è stata presentata come una pericolosa estremista, o come una povera illusa, la cui elezione alla segreteria del Pd sarebbe foriera di ogni tipo di sciagura: disastro economico, deriva verso il populismo, addirittura la messa in discussione delle alleanze internazionali dell’Italia.
Affermazioni ridicole, che oltretutto ignorano che la nuova leader del partito non viene dalla militanza nei centri sociali, ma dal un seggio al parlamento europeo, e che è stata scelta proprio da Stefano Bonaccini come vicepresidente della giunta che egli guida nel Consiglio regionale dell’Emilia Romagna.
Pur essendo risibili, queste reazioni non vanno sottovalutate. Schlein dovrà fare i conti con un apparato di partito che è stato plasmato da un lungo periodo di egemonia dei “riformisti”, sostenuti dalla stampa che ne amplifica le posizioni, evitando accuratamente di dare voce a ciò che il vero riformismo socialdemocratico sta facendo, pur con accenti diversi, negli Stati Uniti, in Spagna, in Portogallo o in Germania (la situazione del Labour di Keir Starmer è in questo momento peculiare, per via di fattori che hanno a che fare con la situazione del Regno Unito dopo Brexit).
Prudenza e barra dritta
La raccomandazione (non richiesta, parlo da spectateur engagé, non da militante) è di muoversi con grande prudenza. Dare soddisfazione a chi, fuori dal partito, chiede il cambiamento, ma tenendo saldo il timone, evitando scossoni che potrebbero mettere in pericolo la navigazione. Nella consapevolezza che i suoi avversari utilizzeranno ogni occasione, anche la più pretestuosa, per metterla in cattiva luce, e che gli attacchi arriveranno prima o poi anche da sinistra.
La sfida è di forgiare un nuovo consenso all’interno del partito, ricucendo il rapporto che si è sfilacciato con gli elettori persi in questi anni, ma senza fughe in avanti. Un passo alla volta. Tenere unito il partito facendo capire che al centro, nelle condizioni attuali, non c’è futuro per una forza che voglia essere davvero il partito dei diritti e dell’equità sociale. Convincere le persone di buona volontà, e quelle che non sono animate da un furore ideologico che le rende ostili a qualunque forma, anche la più blanda, di politiche redistributive, che in gioco c’è la sopravvivenza stessa del Pd. Che non può, in una società disorientata e spaventata, andare avanti a lungo come l’agenzia di servizi di un capitalismo che si oppone alle misure di equità e alla transizione ecologica.
Guardare agli elettori
Non c’è solo il partito che richiede attenzione. Schlein si è imposta soprattutto come candidata che si rivolge a un’opinione pubblica progressista, che vuole difendere i diritti di libertà e proteggere i deboli. Ora ci vogliono proposte convincenti per una crescita inclusiva. Non dovrà farsi mettere nell’angolo da chi agita lo spauracchio della spesa pubblica. Le politiche redistributive di vecchio stampo sono rese impraticabili dal contesto internazionale e dai vincoli europei. Bisogna puntare quindi sui meccanismi istituzionali che presiedono alla creazione della ricchezza e ne impediscono la diffusione equa (distribuzione ex ante, non ex post). Seguendo l’insegnamento che le punte più avanzate della cultura liberale e socialdemocratica difendono da anni.
Elly Schlein si è trovata, un po’ per caso, di fronte all’occasione di una vita per una persona animata dalla vocazione politica. Negli anni precedenti altri si sono trovati nelle stesse condizioni e hanno fallito. Alcuni con dignità, altri in modo miserevole, lasciandosi alle spalle macerie e recriminazioni. Quella che si apre, però, è una finestra di opportunità che potrebbe chiudersi presto. Lo scenario internazionale non favorisce l’ottimismo, l’Italia si trova in una situazione di grande fragilità. Ci vuole coraggio, determinazione, e prudenza. Buona fortuna Elly!
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