- Il 23 settembre scorso il presidente Draghi parlò all’assemblea di Confindustria della opportunità di pensare a «un patto economico, produttivo, sociale del paese». Da allora questo tema è uscito dall’agenda.
- Eppure la situazione di emergenza economica e sociale ripropone lo strumento dell’accordo, soprattutto alla luce della spinta inflazionistica.
- Un accordo è sempre un compromesso. Ma questa impostazione non quadra con la formazione del segretario della Cgil e della Confindustria. Forse il presidente teme che le stesse difficoltà incontrate nei rapporti con i partiti si ripropongano con le parti sociali.
Il 23 settembre scorso il presidente Draghi parlò all’assemblea di Confindustria della opportunità di pensare a «un patto economico, produttivo, sociale del paese».
Da allora questo tema è uscito dall’agenda, dopo il duro colpo subito con la decisione di Cgil e Uil di indire uno sciopero generale.
Eppure la situazione di emergenza economica e sociale ripropone lo strumento dell’accordo. Perché il patto diventa ancor più importante? E perché la sua realizzazione appare, almeno per ora, poco probabile?
A causa della pandemia la spesa pubblica è molto cresciuta; con la ripresa, i costi dell’energia e delle materie prime hanno visto aumenti a volte vertiginosi.
Di conseguenza si è avvertita una crescita dei prezzi che non si verificava da molto tempo. Anche se restano incertezze sulla durata della fiammata inflazionistica, nei prossimi anni occorrerà tornare a misurarsi con questo fenomeno che penalizza salari e stipendi e riduce la competitività internazionale delle imprese.
A fine anno risultavano scaduti circa il 60 per cento dei contratti collettivi di lavoro. I salari netti in Italia sono mediamente più bassi di quelli tedeschi e francesi.
È evidente che in questa situazione è molto difficile che le relazioni industriali trovino un equilibrio che eviti la temuta spirale prezzi-salari, ma anche una stagione di conflittualità e una perdita di competitività delle imprese.
L’intervento del governo nel quadro di un ampio accordo con le parti sociali potrebbe aiutare, usando da un lato la leva fiscale a favore dei lavoratori dipendenti con retribuzioni basse e dall’altro incentivando in vario modo le imprese a muoversi sul terreno dell’innovazione e a dipendere meno dal costo del lavoro.
Allo stato questo esito appare però poco probabile. I motivi sono vari e complessi. Uno di particolare rilievo ha a che fare con gli orientamenti culturali delle leadership.
Un accordo, nella logica della concertazione tipica dei paesi del centro-nord Europa è sempre un compromesso. Questa caratteristica non si incontra facilmente con la formazione del segretario della Cgil, più portato a trasporre sul piano dei rapporti con il governo quella logica conflittuale e rivendicativa sperimentata in quelli con le imprese.
Ma anche il presidente di Confindustria, pur invocando spesso la prospettiva del Patto per l’Italia, non mette sul tavolo la disponibilità delle imprese ad affrontare anche dei costi.
Il presidente del Consiglio ha una formazione legata a un liberalismo aperto alle istanze sociali, per il quale la decisione politica dovrebbe essere presa dopo ampia consultazione, ma alla fine in piena autonomia da parte della leadership politica.
Forse il presidente teme che, dopo aver sperimentato le difficoltà di tale impostazione nei rapporti con i partiti, si aggiungano altri problemi legati al rapporto con le parti sociali, che pure se funzionasse potrebbe aiutarlo.
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