Nel voto sulla relazione sulla Giustizia la maggioranza proprio non c’è, con Italia viva che potrebbe votare contro. Nel Pd c’è chi vuole ancora ricucire con Renzi, ma il premier preferisce l’ipotesi del nuovo incarico
- I numeri al Senato non ci sono, la situazione è ancora in pieno stallo. E così dentro il Pd crescono le voci che chiedono di riaprire le porte a Matteo Renzi, mentre dal cerchio stretto del segretario filtra «l’imbarazzo» per i continui interventi di parlamentari.
- Eppure qualcosa si muove, anche nel Pd. Alla spinosa ricucitura starebbero lavorando, in grande riservatezza, i ministri Franceschini e Guerini. Ma è guerra di nervi, in serata filtra la notizia che Conte avrebbe trovato i «responsabili». E che si preparerebbe a salire al Colle a rassegnare dimissioni.
- Nelle ultime ore sembra che il premier si sia convinto. Che sia con i nuovi responsabili, che sia un clamoroso ritorno di fiamma con il rottamatore, in ogni caso – è il ragionamento – Conte deve dimettersi, aprire la crisi e solo così potrà (provare a) varare un nuovo governo. Ma i tempi sono strettissimi.
I numeri al Senato non ci sono, la situazione è ancora in pieno stallo. E così dentro il Pd crescono le voci che chiedono di riaprire le porte a Matteo Renzi: dopo l’ex ministra Marianna Madia, dopo Gianni Pittella e ormai un certo numero di senatori preoccupati dall’«ammiccamento» al voto, il ministro Francesco Boccia ha fatto appello a chi «è stato eletto con i voti del Pd». «Recovery Plan e vaccinazione di massa non aspettano. La maggioranza e il governo devono ripartire subito risolvendo i conflitti in atto», chiede Stefano Collina. Il capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, si spinge più avanti: «Per rilanciare la legislatura e l’attività del governo, fermiamo la guerra e ragioniamo intorno a un tavolo».
Il deputato Michele Bordo, uomo di fiducia del segretario Nicola Zingaretti, garantisce che «il Pd non ha mai puntato e non punta alle elezioni politiche anticipate», che la crisi è colpa di Renzi, e che il partito «si sta adoperando per garantire sulla base di un programma di legislatura un governo autorevole con una base parlamentare ampia e stabile». E dal cerchio stretto degli uomini e delle donne del segretario filtra «l’imbarazzo» per continui interventi di parlamentari sui tempi della legislatura. La linea di Nicola Zingaretti, Andrea Orlando e Goffredo Bettini resta quella del «Renzi inaffidabile», e se non ci saranno i numeri per una maggioranza meglio il voto.
Eppure qualcosa si muove, anche nel Pd. Alla spinosa ricucitura starebbero lavorando, in grande riservatezza, i ministri Dario Franceschini e Lorenzo Guerini. Del resto è l’ipotesi che Giuseppe Conte aveva già ascoltato al Colle il 13 gennaio scorso. Uscito dal Quirinale, il premier aveva lanciato un appello al leader di Italia viva a tornare al tavolo («Dalla strada, come se stesse passeggiando il cane», aveva commentato un notabile renziano). Ma dopo due ore era arrivata la conferenza stampa di Renzi con l’accusa di «vulnus democratico» al premier. E la rottura finale.
Ma è guerra di nervi, in serata filtra la notizia che Conte avrebbe trovato i «responsabili». E che si preparerebbe a salire al Colle a rassegnare dimissioni, nella speranza – fondata – di ricevere il reincarico.
I consigli dei Dc
Fuori dal Pd, anche Pier Ferdinando Casini suggerisce la strada del Colle. «Conte dovrebbe andare al Quirinale, dimettersi e portare la crisi a un confronto politico. Aprire la strada per essere reincaricato. Recuperare dialogo con Renzi e mettere nel dimenticatoio i personalismi».
Una mappa simile l’aveva disegnata anche Bruno Tabacci. Nelle ultime ore però sembra che il premier si sia convinto. Che sia con i nuovi responsabili, che sia un clamoroso ritorno di fiamma con il rottamatore, in ogni caso – è il ragionamento – Conte deve dimettersi, aprire la crisi e solo così potrà (provare a) varare un nuovo governo.
Entro due giorni
I tempi però sono strettissimi. Perché strettissimi sono i numeri della maggioranza al Senato per il voto sulla relazione della giustizia del ministro Alfonso Bonafede. L’ora della verità scatta mercoledì o giovedì, lo deciderà la riunione dei capigruppo (convocata per martedì).
Il Pd va in pressing per convincere il Guardasigilli a segnare una svolta nel suo stile giustizialista. Ha iniziato il vicesegretario Pd Andrea Orlando, già ministro della giustizia. Poi Walter Verini, responsabile del settore per i dem, gli ha praticamente scritto le righe cruciali della relazione: «Tempi rapidi per i processi civili e tempi ragionevoli - sei anni - per i tre gradi dei processi penali. Se tutti smettessero di usare la giustizia come una clava, ne perderebbe lo scontro partitico, ma ne guadagnerebbe il Paese». Ma qualche pennellata di garantismo dell’ultima ora non basterebbe: 156 voti dell’ultima fiducia sono inarrivabili, anche presupponendo di nuovo l’astensione di Iv. Teresa Bellanova in effetti non annuncia il no: «Ascolteremo Bonafede e poi decideremo come votare sulla relazione sulla giustizia, ma se le idee saranno quelle abituali del ministro non potremo essere d’accordo».
Un voto contrario, con conseguenze finali sulla legislatura, spaccherebbe Iv. Sulla carta i no sono 138. I sì stavolta non possono contare sul socialista Riccardo Nencini e su Sandra Lonardo (che ieri ha usato toni durissimi, «fare violenza ai miei valori, questo no»), Mariarosaria Rossi e Andrea Causin. La scelta di Iv sarebbe di nuovo determinante.
Per Di Maio meglio votare
Ma nei Cinque stelle, come a palazzo Chigi del resto, c’è chi anziché cercare voti alza i toni. Forse puntando sulla «bella morte» (politica) del premier e sul ritorno in parlamento di pochi scelti, a casa i peones.
Il ministro Luigi Di Maio, a Mezz’ora in più (RaiTre) rivendica infatti l’operato di Bonafede: «Il M5s non sarà né donatore di sangue, né donatore di organi per questo governo. La prescrizione è una questione sociale», riferendosi alla questione che più fa imbufalire Iv e Forza Italia, «Se si trova la maggioranza bene, altrimenti sono il primo a dire che si scivola verso il voto».
Prima di essere abbattuto dal fuoco amico, con il rischio di non poter neanche ricevere il reincarico, Conte dunque si convince alle dimissioni. Da rassegnare subito, entro le 48 ore dall’appuntamento del Senato. L’apertura formale della crisi azzererebbe l’agenda, e farebbe imboccare una nuova strada al premier, il cui successo però non è scontato.
© Riproduzione riservata