- L’ex premier ostenta generosità ma ha ceduto la leadership (che poi è altro non è che un obbligo di legge) consapevole che il suo nome non fa scattare la ola degli elettori e che il suo marchio non garantiva alla lista il superamento dello sbarramento del tre per cento.
- Renzi, unendo le forze con l’altro partitino, e disponendosi al coperto nella seconda fila, si è procurato la certezza della sopravvivenza politica, la sua e insieme quella di un drappello di fedelissimi che lo hanno seguito nelle avventure della legislatura.
- con la destra ma con M5s: Calenda si trova a lottare per il terzo posto contro l’avversario vituperato, denigrato, anche turlupinato. La sfida non è più
La serie tv è finita, Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno trovato un accordo. All’apparenza l’ex ministro del Mise ha fatto la parte da leone al tavolo. Eppure ha rischiato l’osso del collo. Dopo il matrimonio tardivo e una rottura immediata con il Pd, è stato a un passo dal non potersi presentare alle elezioni politiche del 25 settembre: il simbolo di Azione non aveva l’esenzione dalla raccolta delle firme, lui ha temerariamente sostenuto il contrario, come un consumato pokerista, sapendo che non avrebbe potuto arrivare al “vedo” degli avversari.
Gli è andata bene: nel contrassegno elettorale che ieri è stato reso pubblico sui social, i due simboli di Azione e Italia viva si spartiscono parigrado la parte alta del cerchio; il nome “Calenda” campeggia nella metà bassa, senza alcun complesso per l’ovvia ostentazione di leaderismo. E per la dimostrazione finale di aver promesso una rivoluzione della serietà della politica italiana e aver alla fine messo in piedi solo un altro partitino personale.
Generoso per necessità
Renzi ha fatto un passo indietro, anche due. Per esibire la sua generosità, ad accordo chiuso ha pubblicato un post su Instagram con un vecchio video di una partita di calcio, la nazionale dei parlamentari, in cui lui stesso serve a Luca Lotti – inseparabile braccio destro di un tempo, poi lasciato misteriosamente nel Pd da cui si è autosospeso per le vicende giudiziarie e poi si è prontamente autoriabilitato e reintegrato, ora in cerca di un seggio che i democratici toscani non vogliono dargli – un assist per fare un gol. «Ci sono dei momenti in cui le ambizioni personali lasciano il passo ai sogni collettivi», scrive l’ex premier.
Nobilissime parole. Ma le cose nel concreto stanno un po’ diversamente. Al pari della disponibilità di Calenda a tornare a Canossa da un ex amico con il quale aveva rotto, anche la generosità di Renzi era una strada obbligatoria: il senatore fiorentino gli ha ceduto la leadership (che poi è altro non è che un obbligo di legge) consapevole che il suo nome non fa scattare la ola degli elettori e che il suo marchio non garantiva alla lista il superamento dello sbarramento del 3 per cento.
Peraltro a loro volta né l’uno né l’altro sono stati così «generosi» da attribuire la leadership della lista a una donna, dopo aver lasciato circolare il nome di Mara Carfagna. Ma quella di due uomini che dopo essersi lanciati insulti si cedono vicendevolmente il passo sarà un’altra storia, non è improbabile che prima della consegna delle liste, il 22 agosto, ci regaleranno qualche altro episodio spumeggiante.
Intanto Renzi, unendo le forze con l’altro partitino, e disponendosi al coperto nella seconda fila, si è procurato la certezza della sopravvivenza politica, la sua e insieme quella di un drappello di fedelissimi che lo hanno seguito nelle avventure della legislatura.
I due leader parlano con grande prosopopea della «nascita ufficiale del terzo polo». Il centrosinistra sceglie di non attaccare – l’avversaria da oggi sarà Giorgia Meloni – le destre si scatenano: accusano i nuovi terzopolisti di essere «una costola della sinistra pronta a tornare alla casa madre al primo richiamo della foresta» (Anna Maria Bernini, capogruppo al senato di Forza Italia), o una «realtà virtuale» (Francesco Paolo Sisto, anche lui forzista, sottosegretario alla giustizia): è chiaro teme la concorrenza della neonata lista.
La sfida ora è con M5s
Il sondaggista Fabrizio Masia ieri ha assicurato che il “terzo polo” può ambire ad arrivare fra il 15 e il 20 per cento. Altri sondaggisti si fermano al 10 per cento.
In realtà le incognite della lista centrista sono due: la prima è chi fra Renzi e Calenda il 26 settembre si sarà mangiato l’altro; e dati i precedenti, è molto difficile che a pungere come uno scorpione sulla schiena di una rana a cui ha chiesto un passaggio sul fiume non sia Renzi.
L’altra è la vera sfida di questa lista. Quella politica è di sottrarre abbastanza voti da non far vincere pienamente la destra, e si vedrà. Ma intanto c’è quella numerica. E sa già di beffa: e cioè che dopo le destre e dopo il centrosinistra ristretto guidato dal Pd di Enrico Letta, la two men band Renzi-Calenda sia davvero il terzo polo, la terza forza politica del paese.
Sarà naturalmente il responso delle urne a dirlo. Intanto una cosa è certa: Calenda è partito con l’idea di costruire un’alleanza per governare il paese nel nome di Mario Draghi, ora si trova a lottare per il terzo posto contro l’avversario vituperato, denigrato, anche turlupinato Giuseppe Conte, che guida i Cinque stelle in caduta libera di credibilità e consensi. Una caduta irresistibile, verticale, che però secondo la maggior parte dei sondaggi potrebbe fermarsi a una quota superiore di quella dei due suoi scatenati denigratori.
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