- Per l’ennesima volta tutto sembra appeso a un filo: quello che doveva essere l’esecutivo delle grandi riforme si sta rivelando un longevo governicchio balneare da Prima repubblica, con molte più energie spese a preservare il potere che a usarlo.
- Qualcuno pensa veramente che l’atteso incontro tra il premier Mario Draghi e il presidente del Movimento Cinque stelle Giusepe Conte possa risolvere tutto
- Quando ha preso la guida dei Cinque stelle si è battuto per avere uno statuto che gli desse pieni poteri, convinto di poter diventare il capo non solo dei “grillini” ma di un centrosinistra allargato con il Pd in posizione subalterna. Di quel progetto, invece, si trova ora a essere il commissario liquidatore.
Per l’ennesima volta tutto sembra appeso a un filo: quello che doveva essere l’esecutivo delle grandi riforme si sta rivelando un longevo governicchio balneare da Prima repubblica, con molte più energie spese a preservare il potere che a usarlo.
Qualcuno pensa veramente che l’atteso incontro tra il premier Mario Draghi e il presidente del Movimento Cinque stelle Giuseppe Conte possa risolvere tutto? Ovviamente no, per due ragioni.
La prima: Conte non sa bene cosa chiedere a Draghi. La lista delle “quattro richieste” pubblicata dal Fatto Quotidiano indica un sostanziale vuoto di idee: “armi, salario minimo, reddito di cittadinanza, termovalorizzatore di Roma”.
Nessuna di queste richieste, così vaghe da essere irrilevanti, dipende direttamente dalla volontà o dall’atteggiamento di Draghi.
Le richieste
Sulle forniture di armamenti all’Ucraina il Movimento Cinque stelle ha votato un mandato al governo fino a dicembre e poi ha ribadito il proprio sostegno prima dell’ultimo Consiglio europeo, al termine dell’ennesimo psicodramma, con il voto a una risoluzione che si limita a non escludere anche le vie diplomatiche al dialogo nella guerra tra Mosca e Kiev (che sono ferme per volontà di Vladimir Putin, non dell’Ue).
La discussione sul salario minimo è impantanata in parlamento praticamente da tutta la legislatura, non tocca a Draghi sbloccarla, forse Conte sarebbe più efficace se un simile ultimatum lo lanciasse al Pd e alla Cgil, che da sempre temono un indebolimento del meccanismo della contrattazione nazionale nel caso venga introdotta una tariffa minima oraria per tutti.
Il casus belli sul reddito di cittadinanza non è la cancellazione, come si intravede in qualche retroscena, ma soltanto un emendamento che corregge una parte minore del progetto, cioè prevede l’obbligo di accettare offerte di lavoro (dopo due dinieghi) anche se arrivano da privati invece che dai centri per l’impiego e da navigator. Difficile che sia una evoluzione significativa, visto che il grande problema per i percettori del sussidio anti-povertà è che di offerte di lavoro non ce ne sono proprio.
Quanto al termovalorizzatore, c’è un lato parlamentare della questione, con i provvedimenti che dovrebbero agevolarne la costruzione, ma il vero nodo è politico: il sindaco di Roma Roberto Gualtieri non aveva mai parlato della necessità di un nuovo impianto in campagna elettorale, l’ha scoperta dopo aver conquistato il Campidoglio. Anche qui, Conte dovrebbe confrontarsi più con il segretario del Pd Enrico Letta che con Draghi.
Il ministro di riferimento per Conte, Stefano Patuanelli (Agricoltura), si schiera in trincea a difesa del superbonus edilizio: il governo ha rimediato a una parte dei pasticci sulla cessione dei crediti – il continuo cambiamento di regole stava paralizzando il settore – ma l’assurdità della misura resta palese, come denunciato da Draghi già nella conferenza stampa di fine 2021. Due privati si accordano e lo stato paga, non poteva finire bene, al netto delle frodi. Sprechi per oltre 30 miliardi che non potranno essere rifinanziati in una legge di Bilancio che si farà sotto l’occhio vigile dei mercati e con i tassi di interesse in crescita.
Il vero negoziato
Dunque, cosa può ottenere Conte? Niente di concreto, ma come ovvio il negoziato non è sull’azione di governo, bensì sulla sua leadership del Movimento Cinque stelle. E certo non può essere Draghi a risolvere il problema. Basta rivedere la sequenza degli ultimi eventi: Conte è indignato perché Draghi avrebbe chiesto a Beppe Grillo la sua rimozione dalla guida del partito, come ha rivelato il sociologo Domenico De Masi al Fatto Quotidiano.
Draghi nega, ma immaginiamo che – magari con forme e toni diversi – l’interlocuzione nella sostanza ci sia stata.
Ne emerge il seguente quadro: alla vigilia del voto parlamentare del 21 giugno sulla risoluzione del governo sull’Ucraina, Draghi parla con Beppe Grillo, perché nel frattempo Conte vuole spostare il Movimento su posizioni così divisive che Luigi Di Maio se ne va con oltre sessanta parlamentari.
Nel frattempo Grillo racconta tutto a De Masi, storico collaboratore dei Cinque stelle e mai ostile a Conte, De Masi ne parla con il Fatto Quotidiano, ma De Masi dice di averne parlato anche con Conte che, evidentemente, non ha fatto nulla fino alla pubblicazione dell’intervista.
Nel frattempo il presidente della Camera Roberto Fico, altro Cinque stelle di peso, rompe il riserbo istituzionale per attaccare Di Maio, mentre in Sicilia il Movimento è alle prese col problema di aver schierato alle primarie di coalizione col Pd un candidato non candidabile secondo gli standard dello stesso Movimento (Giancarlo Cancelleri ha già fatto due mandati).
Succede perfino che il governo Draghi congedi l’amministratore delegato di Invitalia, Domenico Arcuri, che era stato il perno del potere contiano, commissario a tutto durante il Covid. Visto che nessuno gli porge ringraziamenti per il buon lavoro svolto, Arcuri è costretto a scriversi l’elogio da solo, su Repubblica.
Nessuno – dentro e fuori i Cinque stelle – sembra considerare Conte un interlocutore. Questo può essere considerato la prova di un grande complotto contro un leader politico scomodo da neutralizzare – ma perché? Boh – oppure come la certificazione del fatto che la mutazione da premier accidentale a leader politico intenzionale non si è mai compiuta.
Conte ha gestito due governi complicati e una pandemia, non è certo stato impeccabile ma manca il contro esempio che si sarebbe potuto fare meglio (anche se Draghi, in circostanze appena diverse, lo ha fatto).
Quando ha preso la guida dei Cinque stelle si è battuto per avere uno statuto che gli desse pieni poteri, convinto di poter diventare il capo non solo dei “grillini” ma di un centrosinistra allargato con il Pd in posizione subalterna. Di quel progetto, invece, si trova ora a essere il commissario liquidatore.
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