L’elezione diretta serve solo per dare una legittimazione popolare al premier, ma non garantisce né la governabilità né la stabilità
Alla fine è arrivato. Per dare stabilità al governo e rafforzare l’esecutivo, Giorgia Meloni propone l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri. Questo progetto è stato preferito alle alternative sul tappeto: quella più radicale del presidenzialismo, quella più soft di un aggiornamento dell’attuale parlamentarismo. La prima avrebbe messo in discussione il ruolo di garanzia del capo dello stato, per cui sarebbe stato difficile proporne il totale superamento, seguendo o la strada americana o quella francese.
A far scartare la via della razionalizzazione del nostro parlamentarismo, che superasse il suo principale difetto, ovvero l’instabilità dei governi e delle maggioranze, è stato lo scarso appeal di un simile limitato intervento. Il governo Meloni ha chiarito bene che non vuole rinunciare al pedigree delle destre: avere un capo del governo “unto” dal voto degli elettori come panacea di tutti i mali.
Governo più stabile?
In poche righe si introduce in Costituzione una novità inedita: il modello dell’elezione diretta del premier non ha riscontri, a parte la breve ma effimera esperienza di Israele negli anni Novanta. Non è questo l’aspetto interessante. Per valutare il premierato all’italiana vale la pena guardare alla sostanza. Chiediamoci: il progetto rafforza il governo assicurandone la stabilità, possibilmente per la durata di un’intera legislatura, riuscendo a dominare le volubili e variabili dinamiche dei partiti della coalizione? Penso proprio di no.
Più che un premierato, nonostante i toni roboanti e le parole del testo, siamo di fronte a un “premieratino”, piccolo e contraddittorio. Un gioco delle tre carte. La prima carta è la previsione che il premier sia eletto «per la durata di cinque anni»: come se la semplice scrittura di questo limite temporale, parificato a quello della legislatura, sia sufficiente a garantirne la sopravvivenza senza tener conto del permanere nel tempo della maggioranza.
Come si sa, infatti, il premier (eletto o no) non governa da solo, ma finché ha in parlamento una maggioranza che lo sostiene, e l’elezione del premier per cinque anni non ne garantisce affatto la continuità. La stabilità di un esecutivo dipende dal carisma del premier e dalla coesione dei partiti e ciò non si consegue col diritto ma con la buona politica.
La seconda è che il premier eletto deve continuare a chiedere, insieme al suo governo, la “fiducia iniziale” delle due camere. Cosa del tutto inutile però. Nel Regno Unito la fiducia al premier nominato dal re, anche senza essere eletto direttamente, si presume esistente. Allora pare del tutto superfluo votarla nel caso proprio di un premier eletto.
Sia perché il premier eletto ha vinto le elezioni e, anche per questo, si dispone che sia incaricato di formare il governo dal capo dello stato senza consultazioni ossia in automatico. Sia perché la proposta prevede che alla maggioranza, cui il premier è collegato, va garantito un premio pari al 55 per cento dei seggi. Insomma: qui si ammette che l’elezione diretta del premier non assicura l’esistenza di una maggioranza “vera” che, perciò, va testata fin dall’inizio. Alla faccia della fiducia e della stabilità del governo!
L’ultima delle tre carte è la migliore. Si stabilisce che, in caso di crisi del governo del premier eletto, il capo dello stato possa risolverla o reincaricandolo o – udite udite! – incaricando «altro parlamentare eletto in collegamento al presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha chiesto la fiducia alle camere».
In parole povere, sgrammaticature a parte, si certifica costituzionalmente la possibilità di un “ribaltone”, perché il premier eletto può essere sostituito con un altro premier non eletto purché si impegni a realizzare il programma del primo. Se non fosse stato scritto così bene sarebbe stato difficile anche pensarlo un simile “premieratino”.
L’elezione diretta è una foglia di fico: serve solo per dare una legittimazione popolare al premier, ma non garantisce né la governabilità né la stabilità. La maggioranza potrebbe sempre abbandonare il premier eletto e preferirgli un leader diverso. Il progetto è inutile e dannoso. Dietro il cesarismo dell’elezione diretta non v’è nessuna cura dei difetti, veri o presunti, del nostro parlamentarismo. Potremmo rischiare però di aggravarli.
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