La nuova formulazione “anti-ribaltone” crea nuovi dubbi interpretativi. L’opposizione, ancora divisa, presenta 2000 emendamenti al testo
La quadra di maggioranza è stata trovata, ma i dubbi sulla riforma del premierato rimangono, anche nel centrodestra con la voce fuori dal coro dell’ex presidente del Senato oggi senatore di FdI, Marcello Pera. L’opposizione, invece, si prepara all’ostruzionismo in commissione, con migliaia di emendamenti presentati: 800 per il Pd, 1000 dell’Alleanza verdi sinistra, solo 12 invece da parte del M5S e 16 da Italia viva.
Gli emendamenti blindati alla bozza Casellati di riforma costituzionale sono quattro: hanno ricevuto il via libera dei tre leader Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani e, per renderli inattaccabili, sono stati presentati non dai gruppi parlamentari ma dallo stesso governo. Il risultato è quello di un premierato «temperato», come ormai viene definito tra i parlamentari di maggioranza. La «madre di tutte le riforme» di Meloni, infatti, avrà correzioni in particolare sul rapporto di fiducia tra presidente del Consiglio e parlamento. Non si è arrivati alla formula preferita da Fratelli d’Italia – quella del simul stabunt, simul cadent per cui alla sfiducia del premier segue lo scioglimento delle camere – ma ad una mediazione che le si avvicina, almeno secondo i proponenti.
Il nuovo articolo 4 del ddl prevede che «In caso di revoca della fiducia al Presidente del Consiglio eletto, mediante mozione motivata, il Presidente della Repubblica scioglie le Camere. In caso di dimissioni volontarie del Presidente del Consiglio eletto, previa informativa parlamentare, questi può proporre, entro sette giorni, lo scioglimento delle camere al Presidente della Repubblica, che lo dispone». Inoltre, nel caso in cui il premier eletto non proponga lo scioglimento e «nei casi di morte, impedimento permanente, decadenza, il Presidente della Repubblica può conferire, per una sola volta nel corso della legislatura, l'incarico di formare il governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio».
Quindi, nel caso di sfiducia, le strade sono due: il parlamento stesso presenta una mozione motivata al Quirinale per sciogliere le camere secondo il cosiddetto simul simul; oppure il premier si dimette volontariamente, entro sette giorni decide se chiedere lo scioglimento delle camere al presidente della Repubblica o di proseguire comunque la legislatura. In questo caso, il Colle ha due strade: conferire nuovo incarico allo stesso premier, oppure affidarlo a un altro parlamentare della stessa maggioranza.
I nuovi dubbi
«Sono contenta, la formulazione della norma è più chiara», è stato il commento di Meloni da Tokyo, dove si trova per una visita ufficiale. In realtà, il risultato finale non è certamente un esempio di linearità normativa e anche dal punto di vista formale e di formulazione solleva perplessità. «Un governo che sia stato battuto sulla fiducia non è in dimissioni volontarie ma obbligatorie, e perciò non potrebbe chiedere lo scioglimento del Parlamento», è stato il commento del solito Pera, che ha definito il testo un «pasticcio». Del resto la riforma – nelle intenzioni di campagna elettorale – nasceva con l’obiettivo dell’elezione diretta del capo dello Stato e oggi è finita con il prevedere quella diretta del premier, ma in una formula inedita rispetto a tutte le forme di governo occidentali.
Un meccanismo «simile al premierato britannico», la definisce il consigliere giuridico di Meloni, Francesco Saverio Marini, che è stato anche ispiratore della riforma. Secondo Marini, in questo modo si sarebbe anche ridotto il rischio che il secondo premier abbia più potere del primo, perchè spetterà comunque al primo decidere se «chiedere lo scioglimento o far proseguire la legislatura».
Eppure, fa notare il costituzionalista ed ex parlamentare dem Stefano Ceccanti, anche così il secondo premier rimane più forte del primo. La ragione è proprio il “buco” normativo evidenziato da Pera: nel caso di crisi di governo in seguito alla bocciatura della questione di fiducia, il primo premier deve necessariamente dimettersi e – nel caso in cui non sia lui a costituire un nuovo governo – il suo successore diventerà «insostituibile, a pena dello scioglimento automatico delle camere». Insomma, gli emendamenti non sanano il problema più evidente del testo ma addirittura creano nuovi dubbi interpretativi.
Gli altri tre emendamenti sono correttivi: uno elimina la soglia del 55 per cento come premier di maggioranza, in modo da lasciare discrezionalità alla nuova legge elettorale e non ingessare il sistema in vista del futuro; un altro restituisce formalmente al Colle il potere di revoca e nomina dei singoli ministri; il terzo invece introduce il limite dei due mandati al premier, con possibilità di un terzo solo se una delle due legislature sia durata meno di due anni e mezzo. Questa previsione – che serve a evitare una concentrazione di potere per troppo tempo in un premier rafforzato - di fatto mette una pietra tombale sul ddl leghista per portare a tre i mandati dei governatori regionali, che avrebbe favorito un altro mandato per il veneto Luca Zaia.
Al netto del muro delle opposizioni, il governo tira dritto e si intesta anche gli emendamenti correttivi: nessuna mediazione per un testo condiviso significa però la quasi certezza che, una volta approvato, il premierato finisca al vaglio del referendum.
Accanto alle riforme, l’esecutivo rimane impigliato in guai più contingenti: il sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi, ha solo annunciato ma non ancora presentato le sue dimissioni e ha fatto capire di voler allungare «l’agonia» per negoziare le sue condizioni di uscita. «Lo aspetto a Roma per accogliere le sue dimissioni», ha detto Meloni. Ma il caso è tutt’altro che risolto.
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