Se guardiamo all’interesse dell’Italia, nessuno è più adatto di Mario Draghi a prendere il posto di Sergio Mattarella come presidente della Repubblica. Le ragioni sono molte e ben note, quelle più rilevanti in questa scelta sono la grande capacità di mediazione tra le forze politiche, dimostrata anche in questo anno, una credibilità internazionale maturata negli anni dell’eurocrisi alla guida della Bce, la profonda conoscenza della macchina dello stato, fin da quando era direttore generale del Tesoro trent’anni fa, e un rigore personale che gli ha evitato ogni contestazione di comportamenti inappropriati in una carriera lunga decenni nelle istituzioni (ha ricevuto critiche per l’esito delle sue scelte, come inevitabile per chi esercita il potere).
Questa elezione presidenziale segna anche, in un modo forse imprevisto, la fine di due epoche. Quella del berlusconismo e anche quella del populismo.
Per l’ultima volta, speriamo, Silvio Berlusconi è stato protagonista delle cronache politiche con le sue ambizioni, i suoi conflitti di interessi e la sua capacità di controllare il centrodestra come un dominio personale. Ogni sua mossa, come la velleitaria candidatura la Quirinale, costringe gli avversari a occuparsi solo di lui invece che di se stessi, come hanno fatto per un quarto di secolo con risultati deprimenti.
L’elezione di Draghi sarebbe un modo per chiudere quella fase, visto che l’attuale presidente del Consiglio ha goduto della fiducia dei governi berlusconiani, che lo hanno indicato alla Banca d’Italia nel 2005 e alla presidenze della Bce nel 2011, ma anche dell’incondizionata stima dell’arco politico di centrosinistra.
Dopo il populismo
Il voto sul Quirinale segna però anche la fine della parentesi populista che si è aperta con le elezioni politiche del 2013 e l’ingresso in parlamento dei Cinque stelle, culminata con il governo gialloverde del 2018 che univa il populismo anti-elite del Movimento e quello sovranista della nuova Lega nazionale di Matteo Salvini.
I Cinque stelle si stanno dissolvendo, la Lega è tornata un normale partito di centrodestra perfino un po’ europeista, quando si è sgonfiata la bolla di consenso intorno a Salvini, ora insidiato da una destra più antica e ideologica come quella incarnata da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
In un modo o nell’altro, questi partiti populisti e sovranisti si sono trovati a convergere sulla figura di Draghi: lo hanno sostenuto al governo o lo hanno rispettato dall’opposizione (Giorgia Meloni).
Anche da questo punto di vista la sua elezione sarebbe un modo di riunire il sistema dei partiti a quel minimo comune denominatore che sembrano condividere, incarnato dalla figura di Draghi come da quella di nessun altro (neppure da Sergio Mattarella, che con Lega e Fratelli d’Italia ha avuto più frizioni).
Resta il problema del governo. Ma se Draghi è davvero così indispensabile, l’unico presidente del Consiglio in grado di guidare l’Italia, perché questi stessi partiti che oggi sono in maggioranza gli hanno preferito per ben due volte Giuseppe Conte?
Draghi è certo persona seria ed efficace, ma neppure lui può gestire un paese da solo: lo ha ammesso lui stesso, nella conferenza stampa di fine 2021, quando ha chiarito di aver dovuto approvare provvedimenti che considerava sbagliati, come l’estensione di un superbonus edilizio che spreca 17 miliardi all’anno o una riforma del fisco a metà, con troppi compromessi e rinvii.
Verso lo stallo
Molte questioni delicate sono slittate – per i veti dei partiti o per un eccesso di cautela di Draghi che non voleva compromettere le sue possibilità quirinalizie – al 2022 o addirittura al 2023 e oltre: dalla riforma delle pensioni, a quella del catasto alla revisione delle concessioni balneari, per non parlare di tutte le altre riforme e i progetti abbinati al Piano nazionale di riforma concordato con Bruxelles. Certo, serve a palazzo Chigi un premier competente e con una maggioranza solida.
Ma non è affatto detto che sia Draghi la scelta migliore: al di là delle sue qualità personali, Draghi dovrebbe guidare una maggioranza sempre più rissosa con l’approssimarsi della fine della legislatura nel 2023 e senza la forza politica di prendere decisioni di lungo periodo, perché la sua permanenza al governo è comunque destinata a essere temporanea e sottratta al giudizio degli elettori, visto che non si candiderà a nulla.
I partiti possono decidere di sprecare l’anno che inizia o di usarlo per fare quanto previsto dal Pnrr, ma questa è una scelta politica, non può essere imposta da palazzo Chigi, chiunque sia l’inquilino (Draghi o, magari, il ministro per la Transizione digitale Vittorio Colao).
Altre ragioni tattiche più abiette – riforma della legge elettorale, tutela dei propri seggi e relativi stipendi, calcoli tattici sulle elezioni anticipate – non dovrebbero aver peso nell’elezione del capo dello Stato. Ce l’hanno, ovviamente. Ma ciò non toglie che il miglior candidato possibile per la carica sia Mario Draghi.
Se i parlamentari sceglieranno un compromesso al ribasso, che magari spinga Draghi a uscire di scena, prima o poi ne pagheranno il prezzo davanti a elettori che non sono interessati ai giochi di palazzo ma soltanto al risultato.
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