La segretaria riunisce gli europeisti doc del suo partito, da Letta al padre fondatore dell’Ulivo. Il nodo dell’alleanza con i grillini. Come federatori si evocano anche i nomi di Gentiloni e Manfredi
Non esiste, ad Atreju Elly Schlein non ci sarebbe proprio andata, e pazienza per le polemiche che arrivano da là. Lo ribadisce nel pomeriggio, all’assemblea nazionale del Pd, dal palco dei Tiburtina Studios dove si svolge la kermesse europeista del suo partito: «Sarò sempre disponibile al confronto nel merito con tutti, anche con la presidente Giorgia Meloni. Ma quello che ho declinato non è un invito al confronto con lei, è un invito alla sua festa di partito nel giorno in cui ci negavano il confronto in parlamento, affossando con un sotterfugio la nostra proposta sul salario minimo. E poi, vorrei fosse chiaro: per la mia cultura politica non avrei potuto mai calcare il palco con un eversore che ha detto che Pedro Sanchez andrebbe appeso per i piedi. Con i nostalgici del franchismo e del fascismo io il palco non lo divido». Ce l’ha con il leader di Vox Santiago Abascal, ospite di Meloni. La platea applaude con convinzione.
Musk di là, Prodi di qua
Ma certo, mentre di qua il Pd ha riunito un migliaio di persone a confrontarsi sull’«Europa che vogliamo», ai giardini di Castel Sant’Angelo, concessi in esclusiva ai nuovi padroni d’Italia, si lanciano fuochi artificiali: Elon Musk fa il mattatore, esibendo il figlioletto (nato da una gravidanza per altri che Fdi considera un reato universale, ma nessuno lì se lo ricorda); sfila mezzo governo; e anche va in scena l’appassionante telenovela sul ritorno di Andrea Gianbruno, l’ex compagno della premier, fra i suoi vecchi amici. La controprogrammazione non è facile.Se il primo giorno della «contro Atreju» democratica era stato quello delle preoccupazioni del commissario Paolo Gentiloni per l’allentamento dell’appoggio all’Ucraina da parte della Ue ma anche del Pd, il secondo giorno stenta a decollare, almeno fino al primo pomeriggio. In realtà gli ingredienti per l’evento ci sarebbero. Schlein ha fortissimamente voluto la réunion dei democratici più autorevoli. Ce l’ha fatta.
Romano Prodi è salito sul palco e ha lanciato l’allarme per un’Europa che rischia l’irrilevanza fra i giganti Usa e Cina, perché progetto «ancora incompiuto», «un pane mezzo crudo». L’ex segretario Enrico Letta ha accettato per la prima volta di tornare a parlare davanti ai suoi, dopo il tonfo elettorale del settembre 2022. Fin qui era stato renitente alla leva opponendo l’incarico ricevuto dalla Ue nella sua qualità di presidente dell’Istituto Jacques Delors, quello di preparare «una relazione indipendente di alto livello sul futuro del mercato unico». Stavolta non può sottrarsi. Potrebbe essere una riflessione sul passato recente. Ma Letta sceglie di non uscire dallo spartito europeo. L’Unione, dice, «quando vuole c’è», e l’esempio sono i vaccini comuni, il debito comune, l’unità accanto all’Ucraina (tema sul quale non spinge, eppure è stato lui a posizionare il Pd a fianco di Kiev dal giorno stesso dell’invasione). «Ma dobbiamo far sì che queste scelte non avvengano solo quando siamo sull’orlo dell’abisso, dobbiamo essere in grado di pianificarle. Dobbiamo dire dove vogliamo andare nei prossimi dieci anni».
Intervengono da remoto le economiste Mariana Mazzucato e Lucrezia Reichlin. E Nicolas Schmit, socialista lussemburghese e Commissario europeo per il lavoro. Brando Benifei, capodelegazione a Bruxelles, si affanna a ricordarne i meriti: per esempio la direttiva sul salario minimo, che però non costringe l’Italia a approvarlo (Meloni se ne vanta). Ma si capisce l’enfasi: Schmit, che per gli elettori italiani è uno sconosciuto, è il papabile spitzenkandidat dei socialisti europei. Di meglio non si è trovato. La scelta si farà proprio in Italia, il primo e il due marzo prossimi: il congresso Pse si svolgerà da noi.
Federatrice senza federati
Alla fine sarà Prodi, a margine, a premiare la segretaria, rispondendo ai cronisti sul tema spinoso dell’eventuale «federatore» del centrosinistra, cioè la figura che metta insieme la futura alleanza. Circola il nome di Paolo Gentiloni. È improbabile che i Cinque stelle lo accetterebbero – da quella parte si fa il nome di Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli e capo di una maggioranza giallorossa – ma la segretaria ha abbracciato il commissario in favore di telecamere per far vedere che non è scalfita dalle malelingue che non la considerano all’altezza di unire la coalizione. Ed è qui che il fondatore dell’Ulivo le fa un apertura di credito: «Ogni momento ha il suo federatore», risponde ai giornalisti, «e io credo che Elly Schlein lo possa benissimo essere. Il problema è di farsi federare». La chiosa è il guaio: al momento Giuseppe Conte è un competitor, per non dire avversario, agguerritissimo; e i sondaggi danno M5s in avvicinamento al Pd.
Ma tanto basta alla segretaria a far partire in discesa l’assemblea del pomeriggio. Nella sua relazione cita molti, tutti: chi la considera un’intrusa sappia che è consapevole di essere erede della storia del Pd. Riprende le parole di Prodi, Letta e Gentiloni, quelle di Rosy Bindi. Omaggia Mattarella, tira applausi agli scomparsi David Sassoli e Giorgio Napolitano. Trova il modo di evocare anche Walter Veltroni, il primo segretario, che ha incontrato il giorno prima all’inaugurazione della mostra su Enrico Berlinguer.
Parla di Europa, attacca il nazionalismo di Meloni. Incassa l’appoggio del presidente del partito, Stefano Bonaccini, che però avverte un problema sul tema della transizione ecologica: «Se cambiare e accelerare la trasformazione è indispensabile», dice, «la distinzione tra destra e sinistra è su chi sosteniamo nella transizione. E io non ho dubbi: la sinistra deve proteggere e tutelare le classi popolari e i ceti medi, chi lavora e chi il lavoro lo produce. Stiamo attenti a non farci schiacciare dalla parte di chi minaccia anziché di chi protegge», «Se noi accettiamo la caricatura per cui saremmo quelli della decarbonizzazione e la destra quella che protegge le famiglie che debbono cambiare infissi e caldaie, o l’auto, delle imprese che debbono passare all’elettrico, o cambiare coltivazioni, allora siamo già morti».
Si discute. Ma la segretaria non spara il colpo di partenza per la composizione delle liste, motivo di assenza di alcuni e di pena dei molti che aspettano di sapere se saranno candidati e con quale possibilità di essere eletti. Non scioglie il nodo della sua eventuale pluricandidatura a capolista in tutte le circoscrizioni (ha messo in chiaro che sarà «l’ultimo dei problemi», gli interessati si dispongano ad aspettare). Comunica il percorso verso le europee: sei tappe in sei luoghi simbolo, «mettendoci al lavoro: partito, società civile, forze sindacali e categorie, esperti e attivisti, per scrivere insieme il nostro progetto per l’Europa». Si parte da Cassino, il prossimo anno sarà l’ottantesimo anniversario del bombardamento alleato che distrusse la città, poi ricostruita «sulle fondamenta di quel potente simbolo delle radici della nostra cultura continentale che è il monastero dedicato a San Benedetto patrono d’Europa». Sarà uno dei santi a cui appellarsi: le amministrative e le regionali per il Pd si presentano come un calvario. E le europee, per la segretaria, come la prova del nove.
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