- Dall’assemblea riformista ovazione per il professore. «Non possiamo continuare a essere un partito rassegnato in un Paese rassegnato»
- Bonaccini rinsalda le file dei suoi. Guerini: «Non seghiamo il ramo su cui siamo seduti, ma sono preoccupato anche per tutto l’albero».
- La segretaria non c’è, è agli Stati generali del socialismo: «Sul salario, pronta a incontrare Meloni domattina». Ma la destra chiede di fermare l’ostruzionismo e rimandare la discussione a settembre.
«Al Pd serve una sinergia tra riformismo e radicalismo, un radicalismo dolce – qui Romano Prodi fa una pausa, sta usando una formula di Flavia, sua moglie, scomparsa poco più di un mese fa – Al Pd serve uno spirito unitario, troppe volte mancato. Non possiamo continuare a essere un partito rassegnato in un paese rassegnato». La lezione sulla sinistra del fondatore dell’Ulivo non è solo il colpo mediatico del secondo giorno di assemblea dell’area di Stefano Bonaccini, a Cesena. È soprattutto un colpaccio simbolico: l’icona del centrosinistra italiano, l’unico ad aver battuto Berlusconi, padre spirituale del Pd non-renziano e fonte battesimale di Elly Schlein, sceglie il D-Day dei riformisti per tornare a parlare direttamente al suo partito.
Davanti alla platea dei non schierati con la segretaria, che lamentano esclusione dalle decisioni di linea, denunciano di essere sospettati di trame, rivendicano «la libertà di dire la nostra senza che sia lesa maestà», come spiega Alessandro Alfieri; quelli che sottolineano severi, come Lorenzo Guerini, che «per la prima volta nel Pd c’è un segretario eletto con pochi punti percentuali. Significa che non sia legittimo? No. Significa che chi è alla guida ha il dovere di interpretare questa complessità». Un avviso, e neanche troppo in codice.
Insomma, Prodi parla alla fine di interventi che premettono con curiosa insistenza «nessuno vuole delegittimare la segretaria». Ma ha scelto di esserci: «Questo invito è gradito dopo tanti anni che non parlavo più al Pd, è una giornata per me importante». L’ex premier rilegge la storia del partito come storia «di cedimenti» («riforma elettorale, riforma Rai, un certo numero di cambiamenti costituzionali imprudenti, fine finanziamento pubblico dei partiti»). In realtà l’area politica in platea è responsabile, se non artefice, di parecchi di questi «cedimenti». E sempre in realtà, Bonaccini e Guerini enfatizzano l’elogio a lui per criticare Schlein. Il primo: «Ti abbiamo chiamato non solo perché sei il padre nobile del Pd e l’unico e l’ultimo che ha saputo vincere, ma perché ci hai insegnato che per vincere bisogna allargare il perimetro». Il secondo: «Prodi ci ha dimostrato che costruire un progetto di centrosinistra significa non mettere solo insieme sigle ma presentare un progetto politico al paese. Vorrei che recuperassimo quell’idea e quello spirito». Ma c’è un baco in questi ragionamenti: la «vittoria» e «lo spirito» ci sono stati quando il Pd non c’era. Invece da quando il Pd è nato, nel 2007, non ha mai vinto un’elezione politica e (perché) non è mai stato in grado di costruire un’alleanza larga e competitiva; e con qualsiasi segretario: da Veltroni (alleato con Di Pietro), a Bersani (con Vendola), a Renzi (con +Europa e socialisti).
Spirito ulivista
Eppure nell’abbraccio dei riformisti (che non vogliono essere definiti ex renziana, ma elogiano il Jobs act, altro messaggio non in codice per la segretaria) c’è la rivendicazione dell’originario spirito ulivista. Per questo è poco intellegibile la ragione per cui la segretaria ha scelto di intervenire il giorno prima, di non essere in prima fila questo sabato, ad ascoltare le raccomandazioni unitarie del suo principale ispiratore politico. Questo sabato, mentre Prodi parlava, lei interveniva da remoto, agli “Stati generali del socialismo” del Psi: impegno evidentemente indifferibile.
Da lì dunque ha risposto alle aperture sul salario minimo di Giorgia Meloni: «La maggioranza ritiri l’emendamento soppressivo e discutiamo. Io sono disponibile a un incontro con lei anche domattina». Le dà man forte il leader Cgil Maurizio Landini: «Oggi portare il salario minimo a 9-10 euro all’ora è un tema urgente che va affrontato». Ma il dialogo offerto dalla premier è accettabile o una trappola?
La vicenda può diventare un caso di scuola proprio sul cosiddetto metodo riformista. Fdi chiede che sul salario, in commissione le opposizioni smontino le trincee, «concedano un rinvio dell’esame della loro proposta, a settembre si aprirebbe un confronto più ampio»: se no, martedì voteranno l’emendamento soppressivo alla legge e amen. Per il Pd è meglio una bandierina oggi o un dialogo con la destra che porterà a sconfitta certa domani? La vicenda di oggi ricorda la scelta che fece Enrico Letta sulla legge Zan, di cui non a caso si è parlato a Cesena. Di «metodo riformista» di cui si è discusso anche a proposito di gpa. E di «transizione ecologica» che «non deve diventare ideologia, se no facciamo il gioco dei negazionisti» (Alfieri). Alla segretaria servono bandiere identitarie per rifiduciare gli astenuti, ha spiegato. Eppure dovrebbe tenere stretti al Pd anche gli «spaesati» (copy ancora Alfieri), cioè quelli che non apprezzano il suo metodo. È la scommessa impossibile del Pd con dentro tutti (e tutte, per dirla come la segretaria). La settimana parlamentare non sarà un pranzo di gala.
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