Giuseppe Conte porta a casa la prima fiducia, quella dell’aula di Montecitorio, in attesa delle forche caudine di oggi, dalle 9 e mezza al Senato. Alla fine i voti sono 321, votano sì quattro ex M5s del Misto spuntati all’ultimo, e l’ex forzista Renata Polverini. Sono 26 gli astenuti e 259 i no. Maggioranza assoluta. L’ora «è grave», dice Conte per drammatizzare, non «buia», come aveva detto durante la prima ondata di pandemia citando Churchill e attirandosi molte ironie. Tutti parlano di «crisi»: il premier fa le sue comunicazioni «sulla crisi», nel discorso dice «crisi infondata e dannosa per gli italiani», anche Ettore Rosato di Italia viva dice «abbiamo aperto la crisi» aggiunge «per responsabilità» qualsiasi cosa intenda, in un paese in piena pandemia e con il progetto del Recovery plan da spedire in Europa entro febbraio.

La «crisi» è politica, Federico Fornaro ne elogia la «parlamentarizzazione» ma la verità è che formalmente non c’è: Iv ha ritirato le sue ministre ma non farà mancare i voti ai provvedimenti giallorossi. Se passa anche al Senato, il premier potrà andare avanti. Eppure la logica dice che «la maggioranza o c’è o non c’è», avverte in aula Riccardo Magi di +Europa annunciando il No, «proseguire così significa proseguire con un governo di minoranza».

Invece la maggioranza alla fine c’è, e nelle intenzioni di Conte la crisi si deve chiudere senza essere mai stata aperta. Poi si dà un mese per un restyling dell’alleanza. Nel suo intervento il premier concede quasi tutto quello che fin qui la sua maggioranza gli ha chiesto (tranne il Mes). Con aggiunta di segnali e furbizie a buon intenditor. Promette un nuovo patto di legislatura e un rimpasto, come chiede il Pd. Concorderanno «insieme le condizioni e le forme più utili, anche a rafforzare la squadra di governo».

Oltre al nuovo ministro dell’Agricoltura annuncia «l’autorità delegata per l’intelligence». Una scelta ormai scontata, ma vale la pena ricordare che alla conferenza stampa di fine anno, lo aveva escluso con parole di sfida: «Chi la chiede deve spiegare perché non ha fiducia nel suo presidente».

La legge elettorale

La ricerca di voti dei piccoli partiti distribuiti nei gruppi misti lo fa promettere anche «una riforma elettorale proporzionale». Non è prerogativa del governo ma del parlamento, comunque il Pd applaude. Conte è a caccia di consenso ovunque, dentro e fuori il palazzo: come gli ha chiesto Leu, ringrazia «il sindacato» e giura che sarà consultato sul Recovery plan.

Il bisogno di soccorso parlamentare lo spinge a egrege cose, frasi nobili, come suggerito dai più fini cercatori (dem) di «volenterosi». Conte fa appello a «tutte le forze politiche e alla coscienza dei singoli parlamentari», auspica «il contributo politico di formazioni che si collocano nel solco delle migliori e più nobili tradizioni europeiste: liberale, popolare, socialista». L’ironia di Giorgia Meloni (FdI) sarà feroce: «Si vola alto con Mastella Airlines». Conte sa di non avere i voti in tasca: «A tutti coloro che hanno a cuore il destino dell’Italia, chiedo: aiutateci a rimarginare al più presto la ferita che la crisi ha prodotto».

E qui si arriva a Renzi. Con lui la storia è finita: «Non si può cancellare quel che è accaduto, adesso si volta pagina». Conte fa l’elenco dei titoli del Recovery e lo chiama «progetto politico ben preciso che mira a modernizzare il paese». Invita a contribuire «chi ha idee, progetti, volontà di farsi costruttore insieme a noi di questa alleanza». Per i renziani risponde il capogruppo Ettore Rosato, tiene i toni bassi e annuncia l’astensione, ma «anche noi siamo costruttori, alzi il telefono». Iv si ritrova con un bottino magro: Renzi si è messo fuori dalla maggioranza scommettendo di essere indispensabile.

Nella replica Conte mette toppe su temi che aveva dimenticato: per esempio lo schieramento di campo con gli Usa di Joe Biden, «con lui ho avuto una lunga e calorosa telefonata». Insiste sull’europeismo, oggi «l’Italia è in forte consonanza con la Commissione europea», ma il riferimento non può che essere al suo precedente governo con la Lega.

Alle opposizioni, quasi ignorate fin lì, assicura che il piano di rilancio è «aperto a tutte le migliorie», ma ancora non dice nulla sulla cabina di regia. Chi vota No, Lega, Forza Italia e FdI, chiede le sue dimissioni. Invece il Movimento associativo italiani all’estero, che ha inventato Italia 23, contenitore a disposizione del premier, urla la fiducia e lo indica come «guida». Ma su questo Conte non può sbilanciarsi: l’idea di un suo partito mette in fibrillazione il M5s, e non è il momento per aprire fronti interni. Più insidioso Bruno Tabacci, a nome del Centro democratico, le cui file si irrobustiscono. «Non basta il passaggio formale di un doppio voto di fiducia tra oggi e domani, è necessario che lei guidi un nuovo governo», suggerisce, il passaggio «anche sul piano costituzionale le darebbe più forza». È un amichevole invito alle dimissioni con reincarico, il Conte ter. Tabacci si offre come regista di una nuova forza centrista e contiana: «Uno schieramento alternativo al blocco sovranista e populista».

Conte prova fino all’ultimo a corteggiare, includere, rappattumare. Per evitare di dimettersi. «Il discorso di Conte è corretto e forte» ragiona con i senatori dem Nicola Zingaretti, mentre discutono del voto di oggi. Ma poi «bisognerà verificare le condizioni per realizzarlo. La strada è più stretta di quanto si immagini, non possiamo in prospettiva accettare di tutto».

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