Nel momento in cui il popolo aveva dimostrato di essere più avanzato della sua classe dirigente, il segretario Enrico Berlinguer segnò l’inizio di una strategia che, a prescindere dall’organizzazione, nel costruire “la linea” privilegiava la cultura
I poteri istituzionali sono due: il governo e l’opposizione. Una volta dipendevano dal parlamento. Se oggi la gente è sfiduciata e non va a votare, la rappresentanza diventa irrappresentabile. Infatti il governo attuale esce dalla scelta dei due terzi che si è espresso, mentre l’altro terzo non è rappresentato. Il distacco sta nella sequenza storica di fatti via via accaduti come il non avere mai sperimentato un’alternanza di governo fino a Prodi o dalla contrapposizione della sinistra tra un Psi riformista divenuto minoritario rispetto a un Pci che non ha mai fatto i conti con la scissione del 1921.
Ovviamente la sinistra non ha mai rinunciato a pensarsi di governo. Un Psi riformista e una Dc – almeno la parte degasperiana di quel centro che guardava a sinistra – attenta alle flessioni del consenso, realizzarono un centro-sinistra che imbottigliava il partito comunista ormai impossibilitato ad aspirare al governo per via elettorale. A parte la presenza dell’ambasciata americana, il comunismo faceva paura, anche se il Pci, nonostante la non disinteressata dipendenza dall’Urss, manteneva l’impianto ideologico con abile duttilità.
La linea scelta
Quando fu chiaro che bisognava uscire dalla palude soprattutto perché il paese era cambiato e il referendum sul divorzio aveva dimostrato che il popolo era più avanzato della sua classe dirigente, il segretario Enrico Berlinguer segnò l’inizio di una strategia che, a prescindere dall’organizzazione, nel costruire “la linea” privilegiava la cultura. Era una delle parole in circolazione negli anni settanta del secolo scorso – si diceva che la cultura fosse la nuova forma della politica (non a caso non se ne è più parlato )– e il Berlinguer del “compromesso storico” (poi deviato in negoziato di potere con la Dc) ripeteva l’importanza dell’incontro tra le culture politiche comunista, socialista e cattolica.
Per le elezioni del 1976 Berlinguer inventò la Sinistra Indipendente: essendo forte a tutti i livelli la contestazione del “malgoverno della dicci”, scelse di aprire le liste a personalità note a livello locale o nazionale, rappresentanti della società civile – che ancora non veniva chiamata così, ma era già di fatto il soggetto politico reale – non comuniste che intendevano sostenere la possibilità, finalmente, di una svolta. Ne derivò un’esperienza parlamentare interessante che è stata portata ad estinzione insieme con la scomparsa dei vecchi partiti, ma anche deliberatamente censurata insieme con la figura scomoda di Enrico Berlinguer oggi riabilitata e resa mitica. La Sinistra Indipendente fu un “campo largo” efficace: il Pci ottenne il 34,4 per cento dei voti soprattutto per il respiro largo di un partito che non comprendeva solo “duri e puri “e “miglioristi”, ma era portatore di prospettive ancora inesplorate, ma già attente ad un futuro già critico per i partiti.
Altri tempi. Ma era forte la ricerca di nuova partecipazione e la pratica di una presenza seria e disinteressata in parlamento che esprimeva in parlamento interventi critici e di competenza che uscivano dalla disciplina politica del partito egemone, si rivelò – non solo a memoria di chi vi prese parte – un’innovazione e di imprevedibile efficacia.
L’introduzione di voci “altre” in parlamento come Lelio Basso, Altiero Spinelli, Stefano Rodotà, Galante Garrone, Gaetano Arfè, Giorgio Nebbia, Natalia Ginzburg, Andrea Barbato, Luigi Spaventa, Cesare Terranova ucciso dalla mafia dopo essere rientrato nei ranghi della magistratura dove sentiva di poter essere efficace più che da deputato, produceva un’eco particolare nell’opinione pubblica. Anche i meno noti a livello nazionale portavano esperienze e professionalità nelle aule parlamentari con interventi anche scomodi a cui – va detto – il Pci non limitò l’autonomia.
Pluralità
Il concetto di pluralità – che non è il pluralismo – era un’accezione della cultura femminista che – il Pci non ne era del tutto consapevole – offriva l’opportunità massimamente democratica di dare un senso nuovo, non competitivo e sottratto alle suggestioni di parte, alla variabilità del sociale, stimolo per iscritti e militanti non iscritti, per aprirsi a differenze culturali finallora ignorate e potenziali bacini di consenso.
A partire dalla scoperta di un mondo politico cattolico allora – determinante il Concilio Vaticano II – in piena rivolta e disposto a uscire allo scoperto, che aveva trovato un catalizzatore nell’incontro del maggio 1986 alla Badia Fiesolana, dove padre Ernesto Balducci ospitò un gruppo di amici, tra cui i futuri parlamentari Raniero La Valle, Mario Gozzini, il dirigente Rai Angelo Romanò, lo storico Paolo Brezzi, Piero Pratesi, direttore del quotidiano Dc Il Popolo (ovviamente nessuna donna), che avevano tenuto contatti con Antonio Tatò segretario di Berlinguer, uno dei non pochi credenti che negli anni Cinquanta e Sessanta si iscrivevano al Psi e al Pci saltando l’ostacolo della scomunica, transfughi per il Vaticano.
Che tra gli eletti figurasse Tullio Vinay, pastore protestante, rende autentico l’interesse non strumentale del partito, tradizionalmente anticlericale e non consueto a differenze confessionali.
Alla frutta
A prescindere dal cattocomunismo, espressione oggi equivoca per chi tiene distinte le appartenenze di fede dalle scelte politiche, il Gruppo parlamentare della Sinistra Indipendente – che nel 1987 contava 20 deputati e 17 senatori – subì il rimbalzo degli avvenimenti che impedirono definitivamente le aspirazioni di egemonia di un’altra sinistra, a partire dall’uccisione di Moro.
Ma politicamente era passata l’idea che un cambiamento era possibile. Che, diluita negli anni, nel 1992 tramontò dietro il processo Mani Pulite che non segnalò tanto la corruzione dei partiti (processi ce n’erano stati parecchi dalle banane alla Lockeed) ma la loro vetustà. Due anni dopo tutto l’arco costituzionale, tranne il Pci (che aspettò, perdendo sé stesso, l’89) franò e i nomi dei partiti sparirono.
Anche se il problema esisteva, nessuno volle mai definire per legge alcuni istituti nominati tra i fondamenti costituzionali: il partito, il sindacato, la cooperazione. I partiti che sono gli organi legittimi della partecipazione non avevano – non hanno – una definizione e dei limiti e non hanno pertanto l’obbligo della trasparenza. Un tempo chi andava a votare sapeva dai nomi che cosa stava votando: partito socialista, comunista, liberale, democristiano... si sapeva più o meno che cosa erano. Oggi che ci siano “Cinque stelle” o anche “Azione” (che vorrebbe echeggiare il Partito d’Azione del 1948 e non se ne accorge nessuno) non hanno nessun valore simbolico, cosa gravissima.
Quando ci si trova alla resa dei conti e bisogna capire se stare con il governo (di destra) o con l’opposizione (ovviamente di sinistra) si finisce a cercare il “campo largo”. Culturalmente e, quindi, politicamente, siamo davvero alla frutta.
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