- Tutti d’accordo nel giudicare la candidatura di Berlusconi una provocazione e soprattutto una «rottura dello schema prodotto con la nascita del governo Draghi», quello dell’unità nazionale per l’emergenza, come scandisce il ministro Andrea Orlando.
- L’unanimismo non ha mai portato niente di buono al Pd. Ma ad ascoltare con attenzione il dibattito della direzione con i gruppi parlamentari, i colpi si sentono.
- Dunque il premier dovrebbe restare al suo posto. Il segretario allontana il sospetto di preferire Mario Draghi al Colle, con il conseguente rischio di voto o di cambio di governo (e di ministri).
Tutti d’accordo con «la relazione del segretario» che propone un «metodo» per trattare sul nome del Colle.
Tutti d’accordo nel giudicare la candidatura di Berlusconi una provocazione e soprattutto una «rottura dello schema prodotto con la nascita del governo Draghi», quello dell’unità nazionale per l’emergenza, come scandisce il ministro Andrea Orlando.
L’unanimismo non ha mai portato niente di buono al Pd. Ma ad ascoltare con attenzione il dibattito della direzione con i gruppi parlamentari, i colpi si sentono. Fioretto, per ora. Il voto unanime sul mandato al segretario Enrico Letta e alle presidenti di senatori e deputati Simona Malpezzi e Debora Serracchiani, dice che il gruppone dirigente dem è d’accordo, ma fino qui.
Fino a qui tutto bene insomma: fino al mandato a «individuare una figura di alto profilo istituzionale», «non di parte», votata da un «arco di forze parlamentari più ampio possibile, a partire dall’attuale maggioranza» e – attenzione – «garantendo stabilità nell’azione di governo».
Dunque il premier dovrebbe restare al suo posto. Il segretario allontana il sospetto di preferire Mario Draghi al Colle, con il conseguente rischio di voto o di cambio di governo (e di ministri). Ma circola anche l’ipotesi di una sostituzione di qualche ministro tecnico con profili politici, prospettiva che rende più desiderabile il cambio dell’esecutivo.
Mattarella bis
Per alcuni Draghi deve restare a palazzo Chigi e questo porta con sé un bis di Sergio Mattarella. Esplicitamente lo dice Matteo Orfini a nome dei giovani turchi: e se sull’ipotesi mancano i voti della destra «credo che possano maturare le condizioni».
Più sfumato Franco Mirabelli, area Franceschini: «È evidente che Draghi è fondamentale per la tenuta di questo governo». Ancora più sfumato Alessandro Alfieri, Base riformista: «La coppia Draghi-Mattarella» ha assicurato al paese credibilità, «una credibilità di cui avremo ancora bisogno in futuro» (nella corrente del ministro Lorenzo Guerini torna Luca Lotti che annuncia la fine della sua “autosospensione”).
Ma Gianni Cuperlo, duro sull’ipotesi Berlusconi (inaccettabile «porre a capo dei magistrati chi li ha definiti un cancro del paese») discute il metodo: «Se dici Mattarella bis lo recluti a una parte».
No a Draghi
Poi c’è chi esclude apertamente la corsa di Draghi, come Goffredo Bettini: «Il governo deve continuare, l’emergenza non è finita. È naturale che continui con il suo presidente».
Chi teme le conseguenze sociali di una rottura, come il ministro del lavoro: «La fine di una esperienza prodotta per la pandemia e la candidatura di Berlusconi rischiano una reazione nel paese che toglierà molta ovattatura alla discussione».
E Anna Rossomando, vicepresidente del Senato: «Sul prosieguo della legislatura il metodo con cui sceglieremo il presidente della Repubblica sarà determinante». Da queste aree arriva l’eco di un lavorìo sul nome di Giuliano Amato. Non spiacerebbe a Giuseppe Conte, sempreché rappresenti ancora la maggioranza dei grillini (parte dei quali invece chiede il bis di Mattarella).
C’è però chi vuole tenere Draghi in corsa, come il vicesegretario Peppe Provenzano: se Berlusconi «è una proposta politicamente debole, è un atto di forza l’appello al dialogo alla destra per trovare insieme un rappresentante dell’unità nazionale. Ragione per cui nel mandato non possiamo permetterci di bruciare alcuna carta». Il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini si colloca a metà strada: «Se resta in campo Berlusconi, Draghi è una carta che unisce».
Letta non ha mai escluso l’opzione Draghi. E ha voluto il confronto in streaming per vantare un partito che discute in chiaro. E per combattere le voci di un gruppo dirigente che, fiutando aria di cambio di governo, briga per i posti da ministro.
Si inizia con un omaggio a David Sassoli, il presidente del parlamento europeo oggi universalmente celebrato – nel Pd più per il metodo «mite e aperto» che per le concrete posizioni politiche – a cui il segretario intitola la sala della direzione.
Presto la discussione precipiterà nel concreto, l’assemblea sarà convocata in nodalità permanente. Letta corregge la vertigine di debolezza che fin qui aveva fatto circolare: sul nome per il Colle «il centrodestra non ha nessun diritto di precedenza», ha più voti del centrosinistra ma «il parlamento è un unione di minoranze».
La costruzione del campo largo «va avanti grazie soprattutto alle Agorà». Il rapporto privilegiato con M5s è acquisito: «Se si dovesse andare alle prime votazioni senza accordo dovremo scegliere insieme ai nostri alleati votando scheda bianca o convergere su un nome».
Fino a qui tutto bene. Fino a che non dovesse davvero concretizzarsi l’ipotesi di votare Draghi.
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