Greta, qualità della crescita e green new deal. A cent’anni dalla nascita del Pci e trenta dalla morte, le parole d’ordine di Achille Occhetto, che ha guidato la svolta verso la decomunistizzazione della sinistra
- «Vedo già i soliti che sono all’opera per i rimpasti. Non è il momento di una crisi di governo, è ancora il momento della solidarietà per venire fuori dalla pandemia. Ma poi servirà un governo che poggi su una maggioranza solida e valoriale».
- «Il populismo nasce a sinistra, da sinistra si combatte con la formazione. Tutti i cittadini debbono avere la capacità di partecipare alla cosa pubblica».
- «Bene Zingaretti, ma non credo che tutto il Pd sia sulla sua lunghezza d’onda». «L’idea di Renzi di festeggiare i cento anni dalla nascita del Pci con Blair? Non è un’idea né una provocazione, è niente».
«Ragazzi di tutto il mondo, unitevi» non è come “proletari” ma ha comunque un suo gioioso fascino. È il grido di battaglia di Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci e promotore della “svolta” che trent’anni fa trasformò il partito in Pds e avviò la decomunistizzazione della sinistra.
Oggi ha 84 anni portati con l’eterna sciarpa al collo. Parlando del suo ultimo saggio Una forma di futuro: Tesi e malintesi sul mondo che verrà (Marsilio) auspica che «la politica la smetta di discutere di impianti di sci e rimetta queste vicende tecniche sotto la guida dei competenti, e invece affronti il tema fondamentale di come allochiamo le risorse che verranno dall’Europa. Il confronto, lo scontro, deve essere sulla qualità della crescita. L’ecologia deve essere il perno del new deal europeo e nazionale, di un nuovo modello di sviluppo. Sul disastro ecologico siamo già a un punto di non ritorno, molte specie si sono già estinte».
Non ce l’ha con i dinosauri, che pure non ci sono più, ma quando parla di ecologia non gli si può replicare nulla. Perché in quel terribile e formidabile 1989 in cui si avviò la metamorfosi della sinistra italiana, se c’era una cosa che Occhetto aveva azzeccato era la storia dell’Amazzonia, la deforestazione, insomma la gigantesca questione ambientale.
Ora, a cento anni dalla nascita del Pci e trenta dalla morte, chiede «una rivoluzione popolare dolce e democratica», e guarda alla Generazione Greta convinto che dai ragazzi, scrive, possa nascere «l’alba di un nuovo mondialismo controcorrente».
Lei parla di qualità della crescita. Il governo Conte è in grado di guidare in questa direzione i progetti del Recovery Fund?
Siamo ancora nella fase della lotta alla pandemia. E dell’emergenza. Ma il momento della ricostruzione non può che essere quello delle vere alternative, politiche e valoriali. Perché la vera sfida non è nel cielo della politica ma nel mutamento degli equilibri del paese. Non siamo tutti d’accordo, c’è chi vuole ricostruire sul vecchio modello di sviluppo, chi ne cerca uno nuovo. Spendere questi soldi con i criteri di prima significa perpetuare le diseguaglianze. Fra nord e sud, nella sanità, in quella privata abbiamo fin qui investito soldi che poi non sono corrisposti a un ruolo nell’emergenza.
Ma il tempo del Recovery è adesso. Quando deve arrivare questo nuovo governo?
Non è il momento di crisi di governo, di parlare politicisticamente. Vedo già i soliti all’opera per i rimpasti, è ancora il momento della solidarietà per venire fuori da questa fase drammatica. Ma finita l’emergenza sarà necessario un governo che poggi su una maggioranza solida e sicura.
Nel suo libro paragona la pandemia al crollo del Muro di Berlino, all’abbattimento delle Torri gemelli. Eventi dopo i quali ci si aspettava svolte radicali, che non sono arrivate. Oggi c’è una sinistra in grado di guidare una svolta nell’era del dopo contagio?
Il dramma della sinistra è che considera lo scontro ancora fra conservazione e innovazione, mentre il conflitto è nel moderno. Appunto su ‘quale forma di futuro’. Non c’è ancora una sinistra in campo. Serve un rigore riformista che ha del rivoluzionario, una rivoluzione gentile e democratica che guarda al mondo con gli occhi della sofferenza globale. Guardando all’Italia, il mondo degli esclusi, dei cosiddetti invisibili, non è quello del vecchio sottoproletariato fuori dalla produzione. I nuovi invisibili producono ricchezza, aumentano Pil. Per questo Aboubakar Soumahoro è il Giuseppe Di Vittorio del nostro tempo: finché per la sinistra gli invisibili rimarranno tali, non ci sarà una sinistra. La sinistra deve uscire dall’esaltazione del leader. È da sinistra che è nato il populismo, con l’idea del rapporto diretto leader e popolo.
Il populismo è nato da sinistra?
Come è avvenuto nel ’19, da elementi distorti e stravolti della sinistra.
E allora come si combatte da sinistra?
Guardando dentro la società. Con un’avvertenza: per vincere strategicamente occorre correre il rischio di perdere una battaglia. I valori non sono negoziabili, meglio perdere con le proprie idee che vincere con le idee altrui.
Come si diceva negli anni Novanta, meglio perdere che perdersi?
Meglio andare oltre la baggianata del dibattito fra vocazione maggioritaria o minoritaria. La sinistra deve essere progettuale per il governo nel paese, poi se sarà maggioritaria lo decideranno gli elettori. Invoco un campo progressista che vada oltre i diversi tragitti, che non rimetta insieme i vecchi cocci della società italiana. Nella sinistra sono in crisi tutte le componenti, sia quelle a destra del Pd che a sinistra, e tutte quelle del passato. Serve una costituente delle idee che sappia chiamare tutto l’arco della democrazia militante e della cittadinanza attiva, facendosi promotrice di un più ampio campo magnetico volto a fermare la destra ma anche capace di mettere in campo un’ampia alleanza democratica.
Le divisioni post 89 non hanno più senso?
Quello era un altro contesto. Oggi a sinistra molti non si rendono conto che i parametri della politica mondiale sono mutati, e anche le forze alternative seguono percorsi diversi. Che senso ha chiedere a un giovane di Greta di iscriversi a un partito? La politica deve capire quali sono i fermenti della società. I movimenti passano e lasciano sul terreno un limo fecondo. Sta ai partiti saperlo coltivare.
I movimenti passano e i partiti restano. E stanno nelle istituzioni. Il Pd governa quasi ininterrottamente da otto anni. Praticamente senza mai aver vinto un’elezione.
Guardi, non mi piace la sinistra ministerialista. Se guardiamo alla storia di Italia dal ‘45 in qua il paese è in continui mutamenti, una continua rivoluzione nella politica. Ma i rapporti di forza fra la parte di centrodestra e quella di centrosinistra è sostanzialmente rimasta invariata. Se la sinistra non cerca di cambiare l’animo, cioè trasformare la coscienza profonda della gente su temi cruciali, come l’accoglienza, un’idea dell’interdipendenza mondiale, un nuovo internazionalismo, la sinistra non diventa maggioranza nella società. Il socialismo delle origini predicava l’internazionalismo e la libertà e l’uguaglianza, ma era una predicazione di massa. Non ce l’ho con quello che sta facendo adesso il Pd, siamo in una situazione eccezionale: prima di fronte al governo Salvini – dio ce ne scampi se avessimo avuto loro al governo in questa fase, viene la pelle d’oca – e ora perché ormai con un’alleanza ibrida bisogna passare la nottata della lotta al virus. Ma poi non c’è dubbio che bisogna fare i conti con la prospettiva strategica sia della sinistra che nel governo.
Il segretario del Pd Nicola Zingaretti è in grado di guidare questa nuova svolta?
Si, ma non credo che tutto il Pd sia sulla sua lunghezza d’onda.
Dunque il populismo ha i secoli contati?
Il populismo non sarà sconfitto fintanto che non avremo un elevamento culturale e politico del popolo. Il passaggio fra i regimi monarchici a quelli democratici è il passaggio dal sovrano al nuovo sovrano, che è il popolo. Il sovrano aveva un’educazione, bene o male. Il nuovo sovrano, il popolo, deve avere un’educazione per poter gestire la democrazia, detto in soldoni. Vuol dire che una quantità enorme di energie deve essere impiegata sul tema dell’educazione, della formazione, della ricerca scientifica, della critica profonda dell’elemento diseducativo dei media, della rete, sul tema della democratizzazione del cyberspazio, la grande battaglia democratica che nel Novecento non c’era. Tutti temi fondamentali per avere una capacità di tutti i cittadini a poter partecipare alla cosa pubblica. La lotta al populismo si fa così.
Lei però è stato anche in lista con Antonio Di Pietro, padre dei Cinque stelle e anche degli accenti peronisti nella seconda repubblica. I Cinque stelle vengono da lì, o sono una costola della sinistra?
La definizione è grossolana. Se si vuol dire che una parte di elettorato che ha votato Cinque stelle era deluso dal Pd, è vero. Ma se si considera l’impianto culturale politico e ideologico dei 5 stelle una costola della sinistra si ha torto perché si rinuncia a chiedere loro un cambiamento di prospettiva. Non so a chi interessano i loro stati generali e la loro ragioneria politica, ma avrei voluto che discutessero della propria collocazione ideale e politica. Fintanto che i 5 stelle non usciranno dal dogma né destra né sinistra, di fronte ai grandi drammi che attraversano il pianeta, non possiamo considerarla una forza di sinistra. Per ora sono ancora nel limbo.
Renzi vuole festeggiare il centenario della nascita del Pci con un discorso di Tony Blair. È un’idea o una provocazione?
Non è né un’idea né una provocazione. È niente.
Nel suo libro avvisa: non fidarsi sempre del nuovo. Ma come, lei, il padre del nuovismo?
Una sciocchezza. I nuovisti sono quelli che sostengono, come Renzi e il Pd del suo periodo, che il conflitto non è tra destra e sinistra ma fra innovatori e conservatori. Nego alla radice questa visione, c’è innovazione e innovazione.
Insomma il Recovery fund finirà gestito da un governo fra Pd e un partito nel limbo.
Le forze democratiche e di centrosinistra non si devono presentarsi paurose e sulla difensiva di fronte ai nazionalisti. Devono andare con coraggio nella direzione opposta. In un paese lontano un pipistrello ha infettato un uomo e sono crollate tutte le borse. A dimostrazione che non c’è un’economia nazionale, un’America first, una Germania first, ma che il mondo è interconnesso. Anche l’Europa deve cambiare.
Dalla pandemia l’Unione però ha avuto un cambio di direzione. O no?
Le prime risposte dell’Europa sono state molto negative, ma poi c’è stata una reazione alla crisi molto diversa di quella che si ebbe nel 2008. Si è passata dall’austerità neoliberista all’idea che si può spendere per mettere in modo l’economia e per salvare le vite. Ma proprio perché sono europeista penso che l’Unione debba essere rinegoziata, le scelte virtuose non funzionano in un’Europa che si limita a essere un mercato comune. L’Unione è attaccata non solo dal nazionalismo esterno ma al nazionalismo interno, un’eterna altalena fra scelte positive e compromessi al ribasso. Bisogna rivedere l’impalcatura istituzionale, serve, una politica unitaria sociale, sui migranti, una fiscalità sovranazionale. Il parlamento europeo deve farsi costituente per sbarazzarsi del consiglio, che è una cassa di risonanza delle pulsioni nazionaliste. Tutto il potere deve andare al parlamento e deve avere un suo esecutivo, e entrambi devono essere eletti dal popolo. E ora usciamo dal clima isterico sulle misure dei Dpcm e riappropriamoci del futuro.
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