Nel dibattito politica sulla proposta di autonomia differenziata Calderoli-Meloni manca un’analisi dei risultati del trasferimento di poteri alle regioni già avvenuto su materie di grande importanza e dei fallimentari risultati prodotti in particolare al nord.

È dal 1985 che Lombardia e Veneto avrebbero dovuto approvare il piano di tutela paesaggistica, ossia lo strumento di salvaguardia degli ambiti di pregio individuati per legge ed eliminare così ogni discrezionalità nella valutazione dei progetti affidata ai funzionari regionali.

Non lo hanno fatto e cosa è successo in questi 40 anni è sotto gli occhi di tutti: case, villette e capannoni diffusi senza criterio in nome della libertà di iniziativa privata, un consumo di suolo che ha distrutto il paesaggio e gli equilibri ambientali. Invece, è da più di venti anni che le regioni hanno carta bianca in materia di scelte infrastrutturali e di trasporto ferroviario regionale.

Mentre a Monaco di Baviera e Lione, a Valencia si sceglieva di puntare sulla mobilità sostenibile e sulla più efficace e integrata accessibilità, nelle regioni governate dalla Lega tutta l’attenzione è andata alle autostrade pedemontane. Le conseguenze le conoscono imprese e pendolari che hanno visto diventare più lenti e costosi, meno competitivi gli spostamenti rispetto agli altri paesi europei.

Ancora, è dal 1998 che le regioni hanno avuto trasferiti i poteri in materia di edilizia residenziale pubblica. Qui ci vorrebbe qualche politico democristiano a rivendicare la differenza tra quanto fatto dalla vituperata prima repubblica con il piano Fanfani, i fondi Gescal e i piani di zona, che avevano consentito di costruire case a prezzi accessibili per tanti italiani.

Una volta passato alle regioni il tema è sparito dall’agenda politica e mentre si costruivano seconde e terze case in ogni dove, quelle che davvero servivano non si costruiscono più e rendono difficile trovare lavoratori che si possono permettere di vivere in città con migliaia di case vuote ma inaccessibili come prezzi a famiglie italiane e straniere.

Per chiarezza, per nessuna di queste materie esiste la garanzia che ci sarebbero stati risultati migliori da competenze in mano ai Ministeri. Ma è proprio qui il punto politico. Se non è chiaro quali sono gli obiettivi che si vogliono perseguire tutto si riduce a un trasferimento del controllo sulle risorse e del centro di potere. che può diventare controproducente anche per le imprese e i cittadini del nord.

Le regioni come problema non soluzione per rilanciare il paese

Due immagini aiutano a capire i problemi che dovrebbero essere al centro dell’agenda politica in Piemonte, Veneto, Lombardia, Emilia, Friuli.

La prima sono le mappe dell’inquinamento atmosferico elaborate periodicamente dall’Agenzia europea per l’ambiente che mostrano la Pianura Padana come una enorme nuvola tossica chiusa dalle Alpi e dagli Appennini. Come si pensa di affrontare questa situazione, che ha conseguenze rilevanti sulla salute delle persone, spezzettando le competenze in materia ambientale e di energia? La seconda immagine è nel piano nazionale di adattamento climatico pubblicato dal governo Meloni a dicembre.

Si descrivono gli scenari di aumento delle temperature e di frequenza di ondate di calore, di riduzione delle precipitazioni nelle regioni di quella che Bossi chiamava Padania, con le conseguenze sull’agricoltura, le infrastrutture, la vita delle persone. Pensare di affrontare problemi di questa dimensione e senza confini trasferendo i poteri alle regioni è esemplare di quanto sia surreale la discussione in corso nel paese.

Per chiarezza, non è un’anomalia la ridefinizione dei poteri e perfino l’accorpamento delle regioni, come ha fatto la Francia nel 2014, mentre è continuo il confronto politico in Germania sull’equilibrio dei poteri tra lander e governo federale, bundesrat. Ma la discussione verte intorno alle modalità più efficaci per affrontare i problemi all’interno di un articolato sistema di poteri.

Qui da noi si va avanti nel riproporre periodicamente elenchi di competenze da trasferire senza mai spiegare in che modo si vogliano affrontare e risolvere problemi vecchi e nuovi. Per queste ragioni, più che le barricate contro la proposta servirebbe spostare il centro della discussione sul merito delle questioni da parte di una balbettante opposizione.

Per sfidare il governo con argomentazioni e proposte che i cittadini possano comprendere e per fissare i presupposti ineludibili di qualsiasi riforma. Ad esempio, al primo punto dovrebbe esserci che qualsiasi trasferimento di poteri debba partire dall’individuazione degli obiettivi che in ogni parte del paese devono essere perseguiti, degli indirizzi che dovranno essere seguiti dalle regioni in modo da garantire un efficace coordinamento e, in caso di latitanza locale, prevedere un potere sostitutivo dello stato.

Regole di questo tipo esistono in tutti i paesi federali a garanzia dei diritti dei cittadini e sono innumerevoli gli esempi che si potrebbero fare in questo senso.

La seconda questione riguarda proprio il rafforzamento delle deleghe ai territori per un efficace governo del territorio, più vicino ai cittadini e alle imprese, capace di adattarsi alle specificità locali. Ma questo ruolo può essere svolto molto più efficacemente dai comuni e dalle città Metropolitane, piuttosto che dalle regioni.

E qui si dovrebbe aprire il tema dei poteri e delle risorse degli Enti locali, che dovrebbero essere rafforzati dopo anni di tagli e che è alla base dei ritardi del Pnrr. Può uno schieramento progressista che oramai governa solo le città abdicare a questa battaglia?

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