- Iniziano a trapelare i contenuti delle norme con cui il ministro Piantedosi intenderebbe procedere al preannunciato “giro di vite” sulle navi delle Ong. In attesa del testo ufficiale, ci sono alcuni punti sui quali serve focalizzare l’attenzione.
- I naufraghi dovrebbero presentare una “manifestazione di interesse” all’asilo già sulla nave di soccorso, e ciò fisserebbe la competenza ad accoglierli in capo allo Stato di bandiera. Il valore giuridico di tale manifestazione sembra molto dubbio, e così pure il relativo criterio di competenza.
- La nuova normativa prevederebbe anche il divieto di trasbordo da una nave di soccorso a un’altra. In questo modo le navi delle Ong effettuerebbero meno salvataggi. Continua ad alimentarsi anche in via normativa il clima di sospetto e di ostilità verso le Ong.
Iniziano a trapelare i contenuti delle norme con cui Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, intenderebbe procedere al preannunciato “giro di vite” sulle navi delle organizzazioni non governative (Ong).
Anche Marco Minniti, nel 2017, quando era al vertice del Viminale, aveva predisposto un codice di condotta per il salvataggio in mare da parte delle Ong, formalmente ancora in vigore. Si trattava di un atto privo di valore di legge, ma vincolante per le parti, che Minniti aveva imposto di sottoscrivere come condizione per proseguire le attività di soccorso. Invece, Piantedosi introdurrebbe le nuove regole con un atto normativo. In attesa del testo ufficiale, ci sono alcuni punti sui quali serve focalizzare l’attenzione.
La “manifestazione di interesse” per la domanda di asilo
Qualche settimana fa, il ministro dell’Interno aveva affermato che «se si sale su una nave è come se si fosse saliti su un’isola sotto l’egida territoriale del paese di bandiera, e questo dovrebbe far radicare gli obblighi di assistenza», quindi anche di asilo.
Le nuove norme concretizzerebbero il suo intendimento. Imponendo ai naufraghi di presentare una “manifestazione di interesse” alla protezione internazionale già sulla nave di soccorso, appena saliti a bordo, Piantedosi vuole fare in modo che sia lo stato di bandiera della nave a doversi occupare del riconoscimento dei migranti, dell’accoglienza e dell’esame delle istanze di asilo.
Siccome la nave costituisce territorio dello Stato di cui batte bandiera (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, Unclos, art. 91), tale Stato sarebbe quello toccato per primo dai migranti e quindi, secondo il Regolamento di Dublino, «competente per l’esame della domanda di protezione internazionale» (art. 13). La manifestazione di interesse all’asilo già sulla nave suggellerebbe tutto questo.
Lo stato cui spetta accogliere i migranti non sarebbe più quello ove si trova il “porto sicuro” di sbarco, l’unico in cui finora si poteva concretamente chiedere protezione, ma quello della nave, sul cui suolo si renderebbero già ufficialmente note le proprie intenzioni in tale senso.
La disposizione presenta alcune criticità. Innanzitutto, la Corte di Cassazione (n. 6626/2020) aveva già affermato che a bordo della nave di soccorso non possono essere esercitati tutti i «diritti fondamentali delle persone soccorse», tra cui quello di «presentare domanda di protezione internazionale». E poco cambia se, anziché un’istanza formale, si presenta una mera dichiarazione di interesse.
Da un lato, i naufraghi non avrebbero l’assistenza di traduttori, mediatori culturali e legali; dall’altro lato, su una nave di soccorso è difficile possa essere allestita una procedura volta alla loro identificazione, ai fini del riconoscimento dell’autore della manifestazione di intenti; infine, il comandante ha solo il compito di prestare «soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita quanto più velocemente possibile» (Convenzione Unclos, art. 98), mentre la raccolta da parte sua delle dichiarazioni dei naufraghi potrebbe ostacolare tale attività.
Del resto, anche nelle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78, 2004) – elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo, agenzia delle Nazioni unite), allegate alla Convenzione Sar (Search and Rescue) – si afferma che ogni formalità va svolta a terra, per non ritardare lo sbarco (par. 6.20).
Inoltre, serve interrogarsi sul valore giuridico di una manifestazione di volontà resa da soggetti appena salvati in mare, quindi in situazione di fragilità psicologica e fisica, nonché in condizioni di precarietà su un’imbarcazione sottoposta alle intemperie.
Questo dubbio in punto di diritto sulla dichiarazione di intenti, cui sembra arduo poter attribuire efficacia vincolante, fa sorgere ancora più perplessità sul fatto che essa possa cristallizzare la competenza all’accoglienza in capo allo stato di bandiera.
C’è poi un’ulteriore considerazione sulla disposizione allo studio del Viminale, anzi una domanda: se la nave è territorio del Paese di cui batte bandiera, come può una legge italiana essere imposta in sul suolo straniero, qual è quello di un’imbarcazione estera in acque internazionali, che trasporta soggetti provenienti da altri stati?
L’Italia sancirebbe il principio per cui l’accoglienza dei naufraghi dev’essere fornita dallo stato di bandiera, senza che la regola sia condivisa dallo stato di bandiera, né dell’Unione europea, la cui normativa sarebbe sostanzialmente modificata dalla disposizione nazionale.
Il divieto di trasferire le persone soccorse su altre navi
La disciplina che Matteo Piantedosi sta elaborando prevederebbe anche il divieto di trasbordo da una nave umanitaria a un’altra. Tale divieto intende evitare che le imbarcazioni di soccorso, piene di naufraghi, anche oltre i limiti di capienza, possano sistematicamente trasferirli su navi più attrezzate e così riprendere il mare per operare nuovi salvataggi.
È importante chiarire cosa ciò comporti. Dopo il primo intervento di aiuto, un’imbarcazione di soccorso dovrebbe abbandonare al loro destino ulteriori natanti in difficoltà, non potendo effettuare più di un’operazione per volta; in altri termini, anche se incontrasse barche in procinto di affondare, non potrebbe spostare su una nave diversa le persone a bordo, al fine di procedere a nuovi salvataggi, ma dovrebbe prima arrivare in un porto, farle scendere a terra e poi ripartire.
Piantedosi potrebbe argomentare che le operazioni di soccorso devono concludersi quanto più sollecitamente in un posto sicuro, mentre il trasbordo ritarderebbe lo sbarco. Ma, al di là delle eventuali giustificazioni formali, nella sostanza appare palese che con la nuova disciplina le navi delle Ong effettuerebbero meno salvataggi.
Del resto, sin dal suo insediamento il ministro afferma che «le navi umanitarie sono un fattore di attrazione per i migranti» che attraversano il Mediterraneo. E questa sarebbe la base della norma.
La tesi per cui le navi delle Ong sarebbero un “pull factor”, vale a dire un incentivo alle partenze, è stata smentita più volte in base a dati concreti e sembra, quindi, poco solida. Non è una buona pratica quella di fondare una disposizione su elementi la cui attendibilità è stata motivatamente contestata, anche nelle ultime settimane.
Infine, l’intento della nuova normativa sembra quello di associare più o meno esplicitamente il tema dei soccorsi in mare a sospetti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sospetti che sarebbero corroborati in caso di mancata osservanza, da parte delle navi delle Ong, delle regole di prossima emanazione. Una sorta di presunzione di colpevolezza a carico delle Ong che, dal codice Minniti al secondo decreto Sicurezza di Matteo Salvini, continua a essere alimentata anche in via normativa, alimentando a propria volta l’ostilità verso tali organizzazioni. Le loro navi, negli ultimi anni, hanno supplito a quell’attività di soccorso in mare cui gli Stati sembrano aver abdicato. Peccato che nel dibattito pubblico ciò non sia mai oggetto di attenzione.
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