Matteo Renzi ha aperto la crisi e ha sancito la fine del governo Conte due che lui stesso aveva contribuito a far nascere perché il progetto di annettere i berlusconiani è fallito così come il suo ruolo di anello di congiunzione con il mondo berlusconiano
- La scelta non si spiega solo con il tratto distintivo di Matteo Renzi che è quello di rottamare e distruggere ogni avventura personale e politica di successo, nel caso specifico quella di Giuseppe Conte.
- Ai suoi continua a ripetere: «Io il primo ministro l’ho fatto, non voglio nessun posto di governo» e si occupa del suo ruolo di conferenziere internazionale, pagato lautamente.
- C’è una settimana che segna il fallimento. Inizia il 3 novembre quando Denis Verdini finisce in carcere, deve scontare una condanna per il crac del credito cooperativo fiorentino. Si interrompe il più efficace canale di comunicazione tra il mondo renziano e quello berlusconiano.
Matteo Renzi ha aperto la crisi e ha sancito la fine del governo Conte II che aveva contribuito a far nascere. Ma perché questa rottura? Cosa ha portato alla scelta di dividere la maggioranza spingendo Conte alle dimissioni? La decisione, in parte, si spiega con un tratto distintivo di Renzi che in questi anni ha rottamato e distrutto praticamente ogni avventura politica di successo. Ai suoi continua a ripetere: «Io il primo ministro l’ho fatto, non voglio nessun posto di governo». E nel frattempo si dedica al suo ruolo di conferenziere internazionale, lautamente retribuito. Ma questa non è l’unica ragione.
Congiunzione mancata
La crisi del Conte II è anche il frutto dell’incapacità del leader di Italia viva di rappresentare l’anello di congiunzione con il mondo berlusconiano. Gli emissari di Silvio Berlusconi, infatti, non hanno più bisogno del patto del Nazareno ma sono in grado di parlare direttamente con le forze di governo. E non a caso l’esecutivo ha anche approvato una norma che ha favorito Mediaset.
A questo si aggiunge il fallimento della sua avventura politica, incapace di attirare i moderati alle urne, ma anche di allargare i gruppi di Camera e Senato. Il progetto di svuotamento di Forza Italia è naufragato riuscendo a guadagnare unicamente la fiducia di due senatori eletti con gli azzurri, Vincenzo Carbone e Donatella Conzatti, in rotta per ragioni personali. I berlusconiani di peso sono stati avvicinati, corteggiati, ma alla fine non hanno accettato le lusinghe dei renziani. «Dentro Forza Italia anche i parlamentari uscenti ritengono Matteo Renzi inaffidabile, accentratore, non in grado di rappresentare più, come all’inizio, un polo attrattivo per i delusi del berlusconismo, per i fuggiaschi che fiutano lo sgretolamento del partito», dice un senatore al centro delle trattative di queste ore. Inaffidabile perché molti ricordano lo strappo consumatosi con i berlusconiani sulla scelta del presidente della Repubblica dopo il patto del Nazareno che aveva portato l’ex Cavaliere nelle braccia di Renzi e del Pd. Strappo che aveva indotto Berlusconi a prendere posizione a favore del No al referendum sulle riforme costituzionali.
«Quella presa di posizione di Berlusconi ci ha condotti alla sconfitta, purtroppo l’inaffidabilità di Renzi ci ha portati a sbattere, lo stesso atteggiamento che adesso usa in questa crisi che sta generando malumori soprattutto nel suo gruppo», dice un esponente del Pd. In effetti i senatori renziani fanno fatica a comprendere il progetto del leader che continua a ripetere «voglio continuare a farmi pagare per conferenze occupandomi del mio ruolo internazionale». Ma mentre lui fa il conferenziere, per Italia viva c’è il rischio di isolarsi. E anche se il partito dovesse tornare al governo, rischia di diventare irrilevante. Alcuni senatori vivono un evidente disagio e hanno pensato di abbandonare la nave per tornare in maggioranza. Un nome che circola è quello di Eugenio Comincini, ma ce ne sarebbero almeno cinque.
Mai in Italia viva
Nel frattempo, quando i pesi massimi di Forza Italia hanno deciso di uscire dal partito hanno evitato accuratamente di entrare nei gruppi di Italia viva. Mara Carfagna, deputata che è rimasta in Forza Italia fondando una propria corrente, avrebbe declinato più di un invito e oggi è lei a rappresentare una delle possibili strade per allargare la maggioranza. «Per noi del Pd lei rappresenta credibilità e affidabilità, lontana dalla politica degli strappi e della ferocia, ma deve decidere se scendere in campo e aggregare quei senatori moderati che aspettano solo un segnale», dice un autorevole esponente del Pd che auspica Carfagna al governo e Boschi all’opposizione. Non certo per ragioni di odio politico ma, tiene a ribadire, «di affidabilità e credibilità».
A Palazzo Madama alcuni senatori potrebbero seguirla, ma Mara Carfagna non ha ancora deciso se arrivare allo strappo. Sempre al Senato ci sono Paolo Romani e Gaetano Quagliariello, ex berlusconiani che hanno evitato di entrare in Italia viva e oggi trattano per un eventuale ingresso in maggioranza con Quagliariello, che era anche tra i saggi che l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha scelto per formare la commissione per le riforme costituzionali, pronto a ricoprire l’incarico di ministro. L’ultima a uscire è stata la senatrice Mariarosaria Rossi, un tempo fidatissima consigliera di Berlusconi, oggi iscritta al nuovo gruppo Europeisti.
A lei il compito di provare a conquistare ex azzurri fuoriusciti e portarli a sostenere il governo. La stessa Renata Polverini, ora alla Camera nel gruppo del Centro democratico di Bruno Tabacci, ha evitato di entrare in Italia viva che pure l’ha corteggiata e inseguita per settimane. Il progetto di annessione è fallito miseramente e si è arrivati al punto in cui Renzi, messo di fronte a una crisi di ruolo e identitaria, ha deciso di far saltare il tavolo.
Una settimana per una crisi
Il 3 novembre Denis Verdini è finito in carcere, deve scontare una condanna per il crac del Credito cooperativo fiorentino. Verdini, con la sua Ala, ha contribuito a consolidare la maggioranza parlamentare che sosteneva l’allora primo ministro Matteo Renzi. Si è interrotto così il più efficace canale di comunicazione tra il mondo renziano e quello berlusconiano. Il 5 novembre, due giorni dopo, un vertice di maggioranza inconcludente ha aperto la strada alla crisi, pochi giorni è stato annunciato il provvedimento salva Mediaset. A intestarselo ci ha pensato il ministro grillino dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli. Ma la settimana delle coincidenze ha regalato anche un ultimo avvenimento.
Proprio in quei giorni viene disposto il sequestro di alcuni documenti in una indagine che coinvolge Marco Carrai, imprenditore vicinissimo a Renzi, e si torna a parlare dell’inchiesta sulla fondazione Open che vede indagati l’ex premier e Maria Elena Boschi. Insomma mentre andava in scena il tramonto del patto del Nazareno e iniziava la crisi del renzismo, il M5s si mostrava più dialogante verso l’ex Cavaliere. Non a caso, in una delle ultime riunioni tra ministri del Movimento, alla domanda posta da uno dei presenti, «c’è un punto sotto il quale non possiamo scendere?», in sala è calato il gelo. Per i grillini un compromesso con il mondo berlusconiano non sembra più essere un impronunciabile tabù. E Renzi, smarrita la speranza di costruire la casa dei moderati, non è più un necessario anello di congiunzione.
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