«Sì alle tutele, no ai tutori», dicono Cgil e Se non ora quando (Snoq) chiedendo di chiudere lo spazio in mano ai movimenti pro vita. Il Piemonte si era già reso protagonista di iniziative come questa con il fondo Vita nascente. «Non è così che si garantisce il diritto di scelta», dice Laura Onofri, presidente dell’associazione Snoq
A fine luglio all’ospedale Sant’Anna di Torino è stata creata una stanza per le donne che hanno intenzione di abortire per aiutarle a «superare le cause che potrebbero indurre all’interruzione della gravidanza». Era stata definita una «stanza dedicata all’accoglienza e all’ascolto», ma nei fatti è diventata una stanza antiabortista, in cui le donne incontrano i volontari del Movimento per la vita.
Per questo motivo due giorni fa è stato depositato al Tar il ricorso della Cgil e della Fp Cgil, insieme all’associazione Se non ora quando (Snoq) Torino. «Questa stanza è stata data in gestione ad associazioni antiabortiste – dice Laura Onofri, presidente di Snoq Torino –, che nel loro statuto hanno esplicito riferimento al contrasto dell’aborto».
In occasione della sottoscrizione dell’accordo, l’assessore alle Politiche sociali della regione Piemonte, Maurizio Marrone, aveva detto che quando «una donna vuole abortire perché si è sentita abbandonata» è una sconfitta per le istituzioni. L’assessore Marrone si era reso protagonista di un’altra iniziativa ad aprile 2022: il fondo Vita nascente, uno stanziamento di 400mila euro destinato alle donne che, intenzionate ad abortire, decidono di portare avanti la gravidanza. Quei 400mila euro sono poi diventati un milione a marzo di quest’anno. Ma Vita nascente non è una realtà imparziale. Di nuovo, centrale è il ruolo delle realtà associative dichiaratamente anti abortiste che co-gestiscono l’iniziativa. «Queste iniziative sono distinte ma hanno un legame ideologico che le unisce – dice Onofri –. Si rifanno al principio di voler condizionare la vita delle donne, frutto di un’ideologia che stigmatizza la 194 e le persone che vogliono abortire».
«Non sono queste le misure utili a garantire la possibilità di scelta delle donne», dice Onofri. Bisognerebbe investire in primo luogo sugli incentivi al lavoro femminile e al disincentivo di pratiche come le dimissioni in bianco, e in secondo luogo sul welfare, garantendo, ad esempio, asili nido gratuiti e con orari flessibili. Per questo motivo, insieme al ricorso, è stato richiesto che «la regione investa nel rafforzamento del sistema pubblico di difesa e nel sostegno delle donne, attraverso il potenziamento dei consultori, delle strutture territoriali e degli interventi a favore della libertà anche economica delle donne».
Il diritto all’aborto
Il diritto all’aborto in Italia è garantito dalla legge 194 del 22 maggio 1978. Ma molti ostacoli fanno sì che questo diritto non sia garantito ovunque. Se non ora quando, in collaborazione con associazioni, collettivi e attiviste, ha redatto un dossier informativo intitolato La tua scelta zero ostacoli. Guida pratica al tuo aborto libero e informato.
«L’obiettivo è quello di aiutare le donne a superare i disservizi che incontrano quando decidono di abortire, cercare di dare loro la consapevolezza dei diritti che hanno», spiega Laura Onofri. In molte zone c’è una profonda distanza tra come dovrebbe essere la procedura e come poi realmente è. Ad esempio, ci si può opporre quando molti ginecologi obbligano le donne a sentire il battito del feto poco prima che abortiscano. O ancora, che l’obiezione di struttura è vietata dalla 194, è prevista solo l’obiezione di coscienza.
I dati sull’obiezione di coscienza
Uno degli ostacoli principali è l’elevato tasso di obiettori di coscienza in alcune regioni. Ma non ci sono dati aggiornati che indicano le strutture in cui il diritto all’aborto è garantito, se non grazie all’iniziativa personale di alcune associazioni, come Laiga 194.
Anche il libro Mai dati. Dati aperti (sulla 194). Perché sono nostri e perché ci servono per scegliere, scritto da Chiara Lalli e Sonia Montegiove in collaborazione con l’associazione Luca Coscioni, offre un eccellente quadro generale della situazione italiana. Dietro a quel libro c’è però un grande lavoro di raccolta dati, svolto struttura per struttura perché i dati aggiornati del ministero della Salute non esistono. O meglio, ci sono, ma sono pubblicati in ritardo rispetto alle scadenze stabilite.
Quelli del ministero nella relazione sull’attuazione della 194 sono dati completamente inutili per una serie di motivi. In primo luogo, sono presentati in formato aggregato, questo significa che non è possibile sapere cosa succede in ogni struttura ospedaliera. Poi non sono aggiornati, ma si riferiscono a due anni prima. Quindi, non danno indicazioni specifiche e attuali.
«Torino non ha grandi problemi nel garantire il diritto all’aborto, anche i tempi sono accettabili – dice Onofri –, questo anche perché il Sant’Anna fa da valvola di sfogo, quindi spesso le donne si spostano e vengono qui ad abortire. Ma nelle altre province e regioni le situazioni sono decisamente peggiori».
Non sono remoti i casi di persone che devono spostarsi di provincia o regione per abortire. E, anche se si pensa che il fenomeno sia passato, in realtà esistono ancora gli aborti clandestini. Secondo la relazione sull’applicazione della 194, nel 1983 gli aborti clandestini erano 100mila. Nel 2016 l’Istat, in collaborazione con l’Iss, ne ha stimati tra i 10mila e i 13mila. Reperire la Ru486, più nota come pillola abortiva, su internet è molto facile ed è possibile farla recapitare direttamente a casa. Ovviamente però si corrono rischi per la salute che in una struttura protetta non si correrebbero.
I modi per cercare di ridurre gli aborti ci sono, dall’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, alla gratuità della contraccezione. Tutte proposte contro cui si è scagliata a più riprese la destra, la stessa che pensa che pagare le donne o esercitare su di loro pressioni con le associazioni pro-life, sia un un modo valido, corretto ed efficace per convincerle a portare avanti la gravidanza.
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