Se negli ultimi anni era stato citato più volte come un candidato a tutto, dal Campidoglio alla presidenza della Regione Lazio fino addirittura alla presidenza della Repubblica, è stato perché ormai aveva accumulato ampie scorte di esperienza, equilibrio, calore umano
Se negli ultimi anni era stato citato più volte dai retroscena di stampa come un candidato a tutto, dal Campidoglio alla presidenza della Regione Lazio fino addirittura alla presidenza della Repubblica, è stato perché ormai era difficile trovare qualcuno che, in buona fede, non lo apprezzasse.
Con David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, morto questa notte, se ne va un civil servant che ormai aveva accumulato ampie scorte di esperienza, equilibrio, calore umano. Dal diluvio di cordoglio che arriva da ogni parte d’Italia e d’Europa, si capisce che le sue erano scorte di merce rara, che lo avevano collocato nello spazio disabitato delle riserve della Repubblica ma anche dell’Unione, quegli altipiani dove approdano i pochi uomini che non hanno sperperato la propria credibilità per strada; per l’elementare ma non frequente fatto di aver mosso ogni passo misurandolo con la propria coscienza.
Il giornalista
Aveva fatto altrettanto nella sua vita precedente, quella da giornalista. La politica è stata la sua passione di sempre, ma quando nasce il Pd Sassoli è un giornalista. Un giornalista famoso, un “mezzobusto” del Tg1, la sua faccia bella e aperta parla di battaglie per il servizio pubblico, ed è una specie di moltiplicatore della sua popolarità.
Di uomini così il partito ha bisogno come l’aria. Ma David è scettico. È una persona seria: si è esposto come professionista Rai e per questo considera la politica per lui ormai inagibile. Quando gli “amici” ex dc lo corteggiano, resta perplesso. Poi si apre la finestra delle europee del 2009 - e quegli amici – in primis Dario Franceschini che presto erediterà da Walter Veltroni un partito alla sua prima caduta rovinosa – quasi a sua insaputa lavora per la sua candidatura da capolista per il collegio dell’Italia centrale.
David rimane sorpreso: Franceschini deve quasi forzarlo. Ma qui si vede la stoffa dell’uomo: decide di lanciarsi nella nuova vita, quasi una rinascita spirituale. Non chiede nulla, non mette paletti e condizioni. Viene “chiamato”, e accetta con tutto se stesso, come per non mancare a un dovere.
Ma per capire questo passaggio bisogna tornare indietro alla sua formazione. Fiorentino, e tifoso della Fiorentina, nasce nel 1956, l’anno dei carri armati a Budapest, la generazione dei «bravi ragazzi, tutti poeti» di Miguel Bosé. Suo padre è Domenico, giornalista e intellettuale di fine cultura cattolica, austero, rigoroso eppure uomo mite.
David è un giovane scout che si avvicina alla Lega democratica e cresce nella cultura del cattolicesimo democratico di La Pira, Moro ma anche delle generazioni successive come Sergio Mattarella, Romano Prodi, Paolo Giuntella, Achille Ardigò, Pietro Scoppola. Quando nel giugno del 2021 incontra papa Francesco è molto orgoglioso, racconta agli amici, di avergli regalato una copia originale de “La povera gente” di La Pira. Orgoglio era per il regalo scelto, ma ancora di più per l’accoglienza ricevuta.
Ma la sua vocazione è il giornalismo. Inizia a collaborare con l’agenzia cattolica Asca. Poi il Giorno, infine la Rai. E qui che il suo impegno civico diventa pubblico. È tra i fondatori di Articolo 21, e dallo schermo è inviato del Tg3, collabora con Michele Santoro, infine diventa conduttore dell’edizione delle 13 e 30 del Tg1 e poi delle 20. In quegli anni, da quello schermo si entra nelle case degli italiani. Con Gianni Riotta nel 2007 è vicedirettore del Tg.
La passione per la politica
Ma poi arriva la chiamata della politica. Racconta in queste ore l’amico Lucio D’Ubaldo su Il Domani d’Italia: «Fissammo un pranzo e lì capii che non poteva vivere senza la politica. Gli mancava, ma non muoveva un dito per accostarsi nuovamente all’attività dei primi anni giovanili. La sua educazione glielo impediva, la nostra stima, al contrario, glielo doveva riproporre. A Franceschini che chiedeva suggerimenti per il capolista alle europee del 2009 – collegio dell’Italia centrale – giunse pertanto il nome di David. Lui, ovviamente, non ne sapeva nulla».
Vinte le resistenze, prende oltre 400mila preferenze, primo eletto nella circoscrizione Italia centrale e tra i più votati in Italia. È capogruppo del Pd all’Europarlamento. E qui fa una cosa che alcuni suoi colleghi giornalisti che pure si sono lanciati nell’agone non fanno: in un’intervista promette di «dedicare il resto della sua vita alla politica». Niente porte girevoli, la politica è un salto da cui non si torna indietro.
Un’Europa aperta al mondo
È già un uomo credibile e autorevole. Per questo nel 2013 viene chiamato a candidarsi alle primarie per il sindaco di Roma. Arriva secondo con il 28 per cento dei voti, doppia quasi quelli di Paolo Gentiloni, ma a vincere è al futuro sindaco Ignazio Marino. Alle europee del 2014 di ricandida e rivince. È riconfermato vicepresidente. Continua il suo lavoro al dialogo con i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente. C’è la sua mano nella l’assegnazione del segretariato Euro-Med alla città di Roma. È nella missione dell’Ue in Libano, per le elezioni del maggio 2018. E in primissima linea, vi resterà fino all’ultimo, nelle battaglie per un europarlamento aperto ai cittadini e trasparente.
Alla terza rielezione del 2019, il suo prestigio ormai è dilagato nelle altre delegazioni dei socialisti europei, il 3 luglio è eletto presidente del Parlamento europeo, nel suo discorso di insediamento chiede il rilancio dello spirito costituente dell’Unione e richiama il Consiglio alla necessità di ascoltare il parlamento. Come primo atto, visitando la stazione della metropolitana di Maalbeek, uno dei siti degli attentati di Bruxelles del 2016.
Presidente equilibrato e molto stimato, equanime in aula ma fiero combattente contro i nazionalisti e i sovranisti d’Europa, gestisce l’era della pandemia aprendo immediatamente una riflessione sul voto da remoto. Da subito incarica il segretariato del “suo” palazzo di individuare le soluzioni tecniche che garantiscano, sono sue parole, «la legalità del processo democratico e la libera espressione del voto».
Il voto a distanza viene sperimentato già da marzo, mentre i paesi si chiudono nel lockdown, e così l’europarlamento non perde una sessione. Sassoli vuole lasciare la “sua” camera aperta e funzionante per non dare alibi alla Commissione che innesca a fatica la lunga marcia del Recovery fund.
«Abbiamo fatto tante votazioni sulle questioni dell’emergenza Covid e non vogliamo fermarci. Ecco perché abbiamo pensato di lavorare con strumenti tecnologici nuovi, anche a distanza», spiega, «una fase di sperimentazione che mettiamo a disposizione di altri parlamenti, magari di quelli che lavorano anch'essi su grandi spazi, come il Brasile o gli Stati Uniti», «Trovare modalità nuove non è semplice ma oggi tutti devono fare i conti con la pandemia», è la conclusione, «questa organizzazione di lavori deve essere sostenuta perché la democrazia non si fermi. Una democrazia che arriva in ritardo è una democrazia che non si fa amare».
Lunedì il suo portavoce, Roberto Cuillo, ufficializza la notizia del nuovo ricovero, dopo quello del 15 settembre per «una polmonite molto cattiva» come dirà lui stesso quando tornerà a presiedere l’aula a fine novembre. La famiglia chiede il massimo riserbo, il ricovero, spiega Cuillo, «si è reso necessario per il sopraggiungere di una grave complicanza dovuta ad una disfunzione del sistema immunitario».
Non presiederà alla sua ultima seduta, quella in cui verrà eletto la nuova presidente. Anche in questo frangente aveva dato dimostrazione della sua eleganza: visto che non c’erano le condizioni per una rielezione – l’avvicendamento di metà mandato in Europa è un patto firmato tra alleati – si era fatto indietro senza clamore. Nell’estate scorsa era stato invoca come sindaco di Roma, ma aveva declinato spiegando che quella sua postazione era importante per l’Italia, prima che per il suo partito.
Ripensare il debito
Sassoli aveva un’umanità inemendabile, allegra, generosa. Non aveva mai smesso di offrire la sua popolarità ai segretari pro tempore del suo partito. Con le sue idee. Come quando, in piena pandemia, da presidente dell’Europarlamento ragionò in pubblico sulla cancellazione dei debiti dei governi contratti per l’emergenza: «Un’ipotesi di lavoro interessante, da conciliare con il principio cardine della sostenibilità del debito. Nella riforma del patto di stabilità dovremmo concentrarci sull’evoluzione a medio termine di deficit e spesa pubblica in condizioni di crisi e non solo ossessivamente sul debito». Era un anno fa, ma lui era già al punto in cui siamo oggi. Dal Nazareno dell’epoca arrivò un messaggio irritato per la fuga in avanti.
Ma lui concepiva la politica come una lunga marcia paziente per le riforme: «Tanti mi dicevano che era velleitaria la web tax e la tassa sulle transazioni. Con Merkel abbiamo negoziato e ora ci sono», diceva con orgoglio di una delle sue ultime battaglie. «In questo momento serve coraggio». Sassoli non temeva di dire cose “di sinistra”, quelle che peraltro vengono discusse in tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei anche quando nel suo, sonnacchioso, vengono considerati un tabù. Perché, sono le sue parole «una democrazia che arriva in ritardo è una democrazia che non si fa amare».
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