Tra i democratici vietate le previsioni sui risultati. Ma si ragiona sui numeri. E sui precedenti: nel 2019 c’erano ancora Renzi e Calenda. Le liste “plurali” dovrebbero fare bene alla Ditta. Con Verdi – Sinistra e M5s, depositata la legge di iniziativa popolare per il salario minimo
I sondaggi hanno il segno “più”, nel Pd di Elly Schlein nessuno ci fa troppo affidamento, ma certo non è un cattivo segno. Gli ultimi orientamenti di voto di Swg per La7 danno il Pd in crescita e, che non guasta, Fratelli d’Italia in calo. Tendenze millimetriche, sotto la soglia di errore statistico, ma intanto dopo il 25 Aprile – cioè dopo le polemiche, gli scontri di piazza ripetuti a loop dalle tv, e il lancio elettorale di Giorgia Meloni – il partito della premier perde lo 0,2 per cento e scende al 26,6. Il Pd invece sale, sebbene dello 0,3 per cento, e scavalla la soglia psicologica del 20 (secondo Swg è al 20,3). Nella call del Nazareno, nel pomeriggio, nessuno si sbilancia. Eppure qualcosa sembra muoversi.
Ieri il Pd è stato il primo partito a presentare le liste per le europee alla Corte d’Appello di Roma per la circoscrizione Centro (il tempo scade stasera alle 20). Nella stessa mattinata, e alla vigilia del Primo Maggio, una delegazione Pd, M5s e Avs ha depositato in Cassazione, sempre Roma, una proposta di legge popolare sul salario minimo legale. Dai primi giorni di maggio, appena il testo sarà pubblicato nella Gazzetta ufficiale, scattano sei mesi per raccogliere le 50mila firme necessarie a far tornare il testo alle Camere. «Dopo che la destra ha accelerato per far saltare la nostra proposta, l’ha messa nel congelatore. Hanno paura di parlarne in campagna elettorale perché significa scoprirsi con una parte del loro elettorato: non c’è una famiglia dove non ci sia una situazione di lavoro precario con stipendi sotto i 9 euro», secondo Arturo Scotto, capogruppo del Pd in commissione Lavoro alla Camera. Il punto però è anche restare compatti: «Ciascuna forza politica si è impegnata a fare del salario una battaglia comune, anche per le europee». Uniti, ma sempre non troppo: sui social il Pd pubblica la foto di tutta la delegazione sugli scalini del Palazzaccio, il M5s quella dei soli grillini.
Oggi Schlein e Conte saranno in Sicilia, a Portella della Ginestra, alla tradizionale manifestazione della Cgil in ricordo dell’eccidio del 1 maggio 1947. Il presidente M5s potrebbe cercare di attirare le telecamere, per esempio firmando lì i quattro referendum del sindacato, uno dei quali è per l’abrogazione del Jobs Act. Non è detto che lo faccia. Ma Conte è a caccia di photo opportunity: deve aprirsi uno spazio nello scontro diretto fra Schlein e Meloni. A meno di quaranta giorni dal voto, il 17 per cento del 2019 è una scommessa (oggi sarebbero poco sopra il 15). E all’epoca il M5s era il partito del premier, che era capo della maggioranza gialloverde.
Come si “pesa” il risultato
Nel Pd le previsioni sono vietate, la segretaria ci scherza, «parlare di asticelle porta iella». Nel 2019, sotto la guida di Nicola Zingaretti, il partito prese il 22,7 per cento. Ma, viene sottolineato, in quella elezione nel Pd c’era ancora Matteo Renzi, che fuoriuscirà nel settembre 2019; e Carlo Calenda, plebiscitato capolista nel Nord-Est, con la sua associazione Siamo Europei (nel simbolo Pd) che invece lasciò a fine agosto dello stesso anno contro l’imminente governo giallo-rosso. Le formazioni di Renzi e quella di Calenda oggi vengono stimate complessivamente intorno al sei per cento. Morale: al Nazareno le previsioni sono bandite, ma già «sul 20 per cento metterei la firma», spiega un deputato vicino alla segretaria, «tanto più che quando Elly Schlein è diventata segretaria, il Pd veniva stimato al 14, dopo la sconfitta alle politiche».
La compilazione delle liste, ieri ufficialmente tutte consegnate, non è stata una passeggiata di salute: dal passo falso su Ilaria Salis, l’italiana detenuta a Budapest a cui la segretaria ha offerto una candidatura (offerta finita male), alle polemiche sul pacifista Marco Tarquinio, alla lunga trattativa fra Schlein e il presidente Bonaccini (capolista nel Nord-Est). Ma chi ha memoria ricorda, per esempio, che nel 2014 Renzi impose le cinque capolista donne la notte della vigilia della consegna delle liste. Stavolta le liste sono state approvate all’unanimità dieci giorni prima del termine ufficiale.
Le sfide fanno bene alla Ditta
E il consenso alla fine è arrivato perché sono stati inclusi pezzi pregiati di aree diverse: molti amministratori (il presidente dell’Emilia-Romagna Bonaccini, capolista nel Nord Est, l’ex presidente del Lazio Zingaretti, i sindaci di Bergamo, Firenze, Pesaro e Bari, e cioè Gori, Nardella, Ricci e Decaro), esterni come la giornalista Lucia Annunziata (capolista al Sud), altri anche con idee distanti dal Pd e con differenti mondi di riferimento, come Cecilia Strada (capolista Nord Ovest) e Marco Tarquinio (Centro).
E ancora, il cigiellino Ivan Pedretti (Nord Est) e Alessandro Zan, deputato Pd ma anche attivista dei diritti civili; e Sandro Ruotolo, del Pd ma anche giornalista esposto sul fronte dell’Antimafia. Insomma: il mix fra dirigenti e civici. E fra i primi, anche tanti candidati forti della minoranza riformista.
E così le competizioni nelle circoscrizioni – per la conquista degli (stimati) 4 o 5 seggi al Nord Ovest, 4 al Nord-Est, 3 o 4 al Centro e al Sud, e due nelle Isole – sarà una gara delle preferenze che comunque porterà voti alla Ditta. Al Centro l’esempio più lampante: dietro la segretaria si sfidano l’ex segretario Zingaretti, le eurodeputate Laureti, Covassi e Rondinelli (quest’ultima ex M5s), Tarquinio ma anche Nardella, Ricci, l’ex deputata Alessia Morani e l’ingegnere Antonio Mazzeo.
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