Il vertice di maggioranza al Senato non è stato risolutivo e la riunione è stata riaggiornata a oggi. La Lega non gradisce il tetto ai mandati del premier, preludio allo stop al terzo mandato per i governatori
Il premierato fortissimo, formato Meloni, si ferma alle resistenze degli alleati. Con la riproduzione, per interposta persona, dello scontro tra la leader di Fratelli d’Italia e Matteo Salvini. L’accordo è stato rimandato a un nuovo vertice, in programma per oggi, dalle ore 13.
Il tetto dei due mandati al premier (estendibili a tre in caso di fine anticipata della legislatura) non piace alla Lega, che lo vede come il preludio perfetto per archiviare il dibattito sul terzo mandato dei presidenti di regione. Un dossier che Salvini vuole riaprire dopo le Europee e in vista delle regionali in Veneto, dove vuole estendere il regno di Luca Zaia.
Certo, alla fine l’intesa non si farà, spiegano dalla maggioranza: il termine ufficiale è fissato a lunedì prossimo. Ma non come si immaginava con i tappeti rossi davanti al progetto di Meloni.
Premierato strong
E in effetti sono stati passati ai raggi X gli emendamenti di Fratelli d’Italia, preparati sotto la regia di Palazzo Chigi da Alberto Balboni, presidente meloniano della commissione Affari costituzionali al Senato. Un’altra novità di impatto, architettata da FdI, prevede l’introduzione del principio del simul stabunt, simul cadent, ossia con la caduta del premier si torna al voto.
Un potenziamento della misura anti-ribaltone. Era l’idea originaria di Meloni, che ha poi ceduto alle richieste degli alleati. Adesso vuole tornare sui propri passi, sotto la spinta dei fedelissimi, in testa il presidente del Senato, Ignazio La Russa. Lega e Forza Italia non sono ostili a prescindere, anzi: se fanno concessioni vorrebbero qualcosa in cambio. Vedi alla voce: tetto dei mandati.
Altro punto sotto esame è il premio di maggioranza al 55 per cento, su cui è stata sollevata più di qualche perplessità dai costituzionalisti intervenuti durante il ciclo di audizioni al Senato. I ministri Elisabetta Casellati (Riforme) e Luca Ciriani (Rapporti con il parlamento), insieme ai capigruppo di maggioranza e a Balboni, cercheranno di trovare un punto di caduta. «Dobbiamo riformare la Costituzione, serve tempo», è lo spin che fanno circolare dalla maggioranza per tenere a bada i nervosismi.
E c’è del vero in questo discorso: è in gioco il futuro ruolo del parlamento, che rischia di essere ulteriormente ridimensionato dalla riforma della destra. Ancora di più con il via libera al principio del simul stabunt, simul cadent, tanto caro a Meloni, che può porre fine di fatto alla Repubblica parlamentare, riducendo lo spazio di manovra degli eletti. Che già oggi sono ridotti a “schiacci-bottoni”. L’unico strumento in dotazione che resta è quello di far valere il proprio ruolo con il potere di sottrarre la fiducia all’esecutivo.
Lacci agli eletti
La riforma meloniana introduce uno strisciante vincolo di mandato, oggi non previsto dalla Costituzione. Formalmente ognuno potrebbe cambiare gruppo parlamentare senza subire sanzioni, ma l’eventuale fuoriuscita dalla maggioranza aumenta il rischio di caduta del governo.
E quindi di un possibile ritorno al voto, creando un effetto di “stabilizzazione forzata” del sistema politico: i parlamentari eviteranno fughe in avanti, facendo leva sull'istinto di conservazione del seggio. E quindi preferendo non lasciare la casa-madre, il gruppo iniziale di elezione. Il risultato è che tutto ruoti intorno a una figura, quella del premier, che riduce a comparse gli altri attori istituzionali: dal parlamento fino alla presidenza della Repubblica.
Dal Quirinale, comunque, la linea non cambia in qualsiasi caso: si osserva senza intervenire, perché Sergio Mattarella non vuole entrare in questioni che riguardano il presidente della Repubblica. Resta la consapevolezza oggettiva che l’intervento sulla Costituzione riduce lo spazio di azione del Colle, nonostante non siano modificati articoli riguardanti i poteri del capo dello Stato. Ma non ci sono elementi che fanno pensare a un intervento anche indiretto.
Anzi al Quirinale hanno accolto con stupore e disappunto l’interpretazione delle sue parole sul «culto del capo» come un «virus micidiale», pronunciate durante il Giorno della Memoria. Il senso delle sue affermazioni era riferito alle dittature, quindi alla mancanza di democrazia, e non alla scelta diretta del premier che rappresenta una delle opzioni democratiche.
Al netto di queste valutazioni, Mattarella è aperto alle interlocuzioni, laddove siano richieste dal governo e dalla maggioranza che sta lavorando al testo. Certo, i confronti non sono intensi. La destra è intenzionata a seguire la propria strada. All’interno della maggioranza sono stati compresi gli eventuali punti poco digeribili, come l’ipotesi di costituzionalizzare la legge elettorale, quindi legare la riforma della Carta al sistema elettorale. Pure sulla revisione del premierato in versione strong, senza possibilità di sostituzione del primo ministro eletto, Mattarella resta spettatore.
C’è chi, fuori dagli ambienti istituzionali, manifesta apertamente scetticismo verso la riforma. «Dobbiamo distinguere due momenti. Che ad inizio legislatura il verdetto del corpo elettorale sia chiaro e quindi il Presidente della Repubblica ne prenda atto è una cosa positiva, perché le elezioni servono a dare una chiara indicazione non solo della scelta dei parlamentari ma anche del governo e del suo indirizzo», spiega a Domani Francesco Clementi, docente di diritto pubblico alla Sapienza di Roma.
«Dove invece è giusto porsi il problema della compressione eccessiva dei poteri del parlamento e del Presidente della Repubblica è nella fase successiva», osserva il costituzionalista che si riferisce al «percorso della legislatura. Non si può bloccare per cinque anni la politica a livello nazionale in una serie di automatismi e rigidità, che impediscono a priori, ad esempio, al presidente della Repubblica di esercitare la sua funzione costituzionale di motore di riserva».
© Riproduzione riservata