Giorgia Meloni non cederà. Non ci saranno governi tecnici, perché non è intenzionata ad arretrare di fronte a eventuali appelli alla responsabilità. Anche al costo di portare il paese a elezioni anticipate. Meglio cercare il tutto per tutto di una nuova legittimazione popolare, invece che abdicare.

La vittoria sarebbe il marchio di “intoccabile”. Il paletto è fissato: non farà spazio ad altri a palazzo Chigi, nemmeno se lo spread toccherà livelli ben più alti di quelli attuali. Ai fedelissimi ha ribadito un concetto: ritiene assurdo che gli investitori possano condizionare il suo percorso politico. Non prende in considerazione di fare quanto ha fatto Silvio Berlusconi nel 2011. In privato ha sempre sostenuto che fosse «un errore» quello dell’ex leader di Forza Italia, un cedimento alle pressioni interne ed esterne.

Training autogeno

La giornata di venerdì ha segnato un salto di qualità nella sindrome del complotto che aleggia alla presidenza del Consiglio. È radicata l’idea di un’operazione internazionale per mandare a picco l’esecutivo e trovare soluzioni tecniche. La preoccupazione c’è, ma Meloni si dice certa di poter sminare il campo. Al suo inner circle ha ripetuto che la manovra convincerà l’Europa e i mercati sull’affidabilità del suo operato.

È il messaggio che ha consegnato ai media fin dall’approvazione della Nadef in Consiglio dei ministri e che lascia ripetere ai big di Fratelli d’Italia con la sponda del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, custode della prudenza sulla legge di Bilancio.

Certo, è venuta meno la protezione di Mario Draghi. I rapporti con l’ex premier si sono raffreddati, per non dire congelati. Le accuse rivolte ai predecessori sulla scrittura del Pnrr hanno lasciato il segno. Draghi si getterà a capofitto nel suo ruolo di rilancio della competitività europea arrivato su volontà della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.

La premier vanta un’ulteriore convinzione: fino a che ci sarà la guerra in Ucraina, la posizione dell’esecutivo sarà blindata. Washington ha apprezzato, fin dal primo giorno, la sua posizione, favorevole all’invio di armi a Kiev. A palazzo Chigi si sono convinti che Joe Biden, al netto delle distanze culturali con la destra italiana affascinata da Donald Trump, rappresenti uno dei numi tutelari di questa esperienza governativa. Alla Casa Bianca non possono consentire tentennamenti di uno degli alleati più solidi nel conflitto russo-ucraino, di cui non si intravede una soluzione diplomatica. Fin qui l’opera di autopersuasione sulla durata dell’esecutivo.

Voto contro tutti

Ma c’è sempre un’altra ipotesi: la crescente sfiducia dei mercati verso Roma e il conseguente aumento dello spread. A quel punto la leader di FdI conosce una sola possibilità: il voto anticipato. Un maxi election day con le europee del 2024, immaginato come un bagno di consenso popolare per restare al centro della scena politica. Ridimensionando la concorrenza degli alleati, in primis la Lega di Matteo Salvini, ma soprattutto rispondendo ai presunti avversari esterni.

Una legittimazione totale con una campagna elettorale all’insegna del vittimismo. La narrazione è facile da immaginare: lei, la leader che pensa agli interessi nazionali, osteggiata dai nemici della nazione. I poteri forti, la Germania, l’Europa e tutto il campionario tipico del vittimismo-complottistico della destra sovranista.

A confortare le idee meloniane ci sono i sondaggi. Secondo la supermedia di YouTrend, Fratelli d’Italia è al 28,5 per cento, i numeri diffusi da Piazzapulita su La7 danno il partito della premier vicino alla soglia del 29 per cento. Addirittura per Quorum, in una rilevazione per Sky TG24, FdI è al 30,7 per cento.

Tutti, dopo un anno, mostrano una crescita rispetto alle elezioni di settembre 2022. Un segnale di apprezzamento dei cittadini. L’obiettivo sarebbe di andare oltre le migliori previsioni in una personalizzazione totale del tipo “io o nemici del popolo”. Un azzardo, probabilmente.

Sponda Quirinale

Fatto sta che una riedizione della scelta di Berlusconi non è contemplata, perché Meloni fa leva anche sulla volontà del presidente della Repubblica. Sergio Mattarella segue gli eventi politici con il distacco istituzionale che gli è proprio e non ravvisa alcuna necessità di intervenire.

Per lui parla, però, la storia recente. Il capo dello stato ha scelto come stella polare dei suoi mandati il rispetto delle prerogative del parlamento senza alcuna forzatura. Un governo diverso da quello attuale può nascere quindi solo con il sostegno diretto di Fratelli d’Italia che, al momento, è il partito con più eletti alla Camera e al Senato.

Ne è prova la nascita del governo Draghi, che è stata possibile solo grazie all’appoggio del Movimento 5 stelle. Ma non è solo una questione di numeri: Mattarella ritiene fondamentale che il premier incaricato goda della fiducia del partito di maggioranza relativa in parlamento.

Valeva per il M5s nella scorsa legislatura, vale oggi per FdI. Per questo sembra irrealizzabile il piano B di cui alcuni parlano in questi giorni: la chiamata a palazzo Chigi di un “Ciampi di destra”, il prossimo governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta.

Meloni non ha nulla contro l’uomo che ha voluto al vertice di via Nazionale. Anzi. Solo che non è disposta a fare passi indietro. Neppure per un profilo gradito come quello di Panetta.

A poco servono quindi le alchimie numeriche per mettere in piedi una maggioranza alternativa senza FdI. Dal punto di vista pratico, certo, sarebbe possibile un ribaltone. Quindi un esecutivo senza il partito di Meloni e addirittura tagliando fuori la Lega.

Al Senato un’ipotetica coalizione da Forza Italia ad Alleanza verdi-sinistra (Avs), compresi gruppi minori e i moderati di Maurizio Lupi, conterebbe 108 senatori sui 200 totali. Così come alla Camera potrebbe avere oltre 215 deputati a disposizione. Ma pare fantapolitica.

Sempre matematicamente sarebbe fattibile una maggioranza dalla Lega al M5s, tagliando “gli estremi”, FdI e Avs. Qui servirebbe un’operazione politica forte, simile a quella che ha portato alla nascita del governo Draghi. Ma, come già accaduto, significherebbe dare a Meloni la possibilità di stare fuori. E aumentare ancora di più il proprio consenso. Chi ha voglia di rischiare?

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