- La presidenza Scalfaro coincise con la fase terminale del primo periodo storico del sistema partitico repubblicano. Il quale in realtà era mutato negli ultimi due decenni almeno, ma nel dopo muro di Berlino trovò l’ufficiale giudiziario che ne sancì la fine testamentale.
- La Guerra fredda, la conventio ad excludendum, il sistema elettorale proporzionale, le preferenze e il voto spesso di scambio, le correnti, i governi e le crisi extra-parlamentari. Scalfaro proveniva da quel mondo e si trovò catapultato in una modernità parlamentare e sociale che ne sconvolse la percezione.
- Rimase francamente costernato e attonito rispetto al “nuovo”. Che interpretò a modo suo, ma con lenti del passato.
Ali di folla inferocita, e un po’ manzoniana, e il sangue non ancora raffermo di Capaci condussero Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale lo stesso giorno dei funerali di Giovanni Falcone. La strage delle trame masso-mafiose-servizi deviati generò un involontario sussulto di dignità parlamentare e le Camere riunite in sessione solenne elessero Scalfaro, al sedicesimo scrutinio, evitando lo strazio analogo che portò Leone al Quirinale solo dopo oltre venti votazioni.
In quelle giornate da scenario terroristico mediorientale mutarono le tattiche, scemarono gli accordi spartitori nella famelica Dc e con il Psi. Caddero i veti di Cossiga ormai esautorato, che raccolse però sessanta voti e il giubilo dai banchi missini che lo sostennero (la Lega nord votò per Gianfranco Miglio). Giulio Andreotti si notò come in un film di Nanni Moretti perché non partecipò alle esequie, del resto non aveva incarichi di governo, era solo senatore a vita. Il neoeletto presidente Scalfaro venne contestato, pur senza responsabilità dirette, ma in quanto esponente di una classe dirigente complessivamente incapace di gestire la sfida mafiosa, mentre Palermo e l’Italia piangevano e portavano a spalla Paolo Borsellino, e qualcuno sferrava schiaffi al capo della polizia.
Scalfaro era stato ministro dell’Interno durante i governi craxiani, ma quella folla ribelle non mirava a singole personalità o responsabilità. Era un grido di dolore. Cui il capo dello stato rispose con una generica invocazione per “maggiore fermezza”, quasi che la mafia fosse nata in quell’annus horribilis e che le vicende attorno ai rais siciliani della Dc fossero qualunquiste chiacchiere da solleone.
Fine della prima repubblica
Da presidente della Camera Scalfaro preferì evitare un parziale conflitto di interessi, e soprattutto di opportunità, vagliando la regolarità procedurale della sua propria stessa ascesa al Colle e fu sostituito da Stefano Rodotà che ne annunciò l’elezione. La sostituzione di Scalfaro sullo scranno principale di Montecitorio generò una coda polemica proprio in vista di future contese quirinalizie, con lo scontro tra i contendenti ambiziosi Rodotà e Giorgio Napolitano, che la spuntò perché più organico al Pds. E segnò un punto futuro a suo favore verso il Colle. La vittoria di Scalfaro bloccò i due candidati in pectore, Andreotti e Fanfani, che puntavano alla continuità/chiusura del primo sistema politico.
La presidenza Scalfaro coincise, si disse e scrisse un po’ sbrigativamente, con la fase terminale del primo periodo storico del sistema partitico repubblicano. Il quale in realtà era mutato negli ultimi due decenni almeno, ma nel dopo muro di Berlino trovò l’ufficiale giudiziario che ne sancì la fine testamentale.
Il nuovo presidente era in tutto un uomo politico di carriera, di quelli detestati, deprecati e al contempo invocati e rimpianti oggi, in un frangente troppo lungo di dominio di asini con l’abbecedario. Eletto padre costituente alla Camera nel collegio Torino-Novara-Vercelli, lui novarese con il padre proveniente dalla provincia di Catanzaro. La Guerra fredda, la conventio ad excludendum, il sistema elettorale proporzionale, le preferenze e il voto spesso di scambio, le correnti, i governi e le crisi extra-parlamentari. Scalfaro proveniva da quel mondo e si trovò catapultato in una modernità parlamentare e sociale che ne sconvolse la percezione, dovendo adattarsi a un mondo senza coordinate pregresse.
Anticomunista quasi viscerale, si oppose al duo Fanfani-Moro intento a varare il centrosinistra organico Dc-Psi e trovò in Andreotti un alleato sagace ed efficace. Vicino a Scelba, spinse per il quadripartito e per il centrismo come formula permanente. Cambiò varie correnti, ma rimase non solo fedele al partito, ma anche al piglio (ultra) conservatore da sempre palesato.
Tra cronaca e leggenda si narra di un alterco negli anni Cinquanta con una distinta signora rea, agli occhi del giovane Scalfaro e futuro capo dello stato, di avere esibito un eccessivo décolleté in un ristorante romano. Altri tempi, altra cultura, altra epoca, e toni da guardiani della rivoluzione khomenista in un paese troppo bigotto, troppo moralista e bacchettone. Contrario alla legge sul divorzio e attivo per l’abrogazione referendaria, e si oppose anche al dialogo Berlinguer-Moro siglando il manifesto dei “Cento” contro la segreteria Dc di Zaccagnini.
Scalfaro uomo della Repubblica parlamentare e dei partiti, rimase francamente costernato e attonito rispetto al “nuovo”. Che interpretò a modo suo, ma con lenti del passato. Scalfaro divenne alfiere della centralità (opinabile e mal interpretata) del parlamento, sede suprema di tutte le decisioni, come in realtà non accadde nella declamata/deprecata e mal definita c.d. “prima Repubblica”, che mai fu.
Il parlamento con i suoi riti, e i suoi miti, e anche il parlamentarismo ovvero le sue degenerazioni, i governi “balneari”, le crisi al buio, i rimpasti ministeriali per assecondare equilibri interni alla vita dei congressi di partito. Scalfaro aveva maturato la sua visione politica in quel mondo. E la lettura della fase politica fu nel complesso da primo periodo della politica repubblicana, sebbene con alcuni punti di innovazione. La cui matrice però risentiva potentemente del vissuto e del mondo politico valoriale di cui Scalfaro era espressione.
Il settennato
Dopo le elezioni del 5 aprile 1992, le ultime del vecchio conio, e una volta nel pieno delle sue funzioni, il neoeletto presidente conferì l’incarico a Giuliano Amato sostenuto da una maggioranza quadripartitica che rimarcava stancamente la formula degli ultimi quindici anni, intenta eroicamente a tentare di riprodursi. La competenza del “dottor Sottile”, e il suo peso politico, non riuscirono a tenere unito il governo rispetto all’onda delle inchieste giudiziarie che investirono molti, troppi – anche innocenti – parlamentari (Scalfaro ne diede conto nel suo discorso di insediamento biasimando «che sotto la toga possano nascere sospetti di malcelati interessi di parte»).
La manovra finanziaria di 93mila miliardi (di lire) e il prelievo forzoso sui conti correnti limitarono i danni del tracollo contabile, ma gettarono nello sconforto il paese. L’attività referendaria sulla legge elettorale e l’ormai incessante azione giudiziaria quasi costrinsero la delegittimata classe politica a produrre una nuova norma per eleggere il parlamento, e la fine del governo Amato. L’approvazione delle leggi Mattarella sancì un passaggio di fase, una cesura culturale rispetto al sistema partitico, che si riciclò tuttavia. Il presidente Scalfaro scelse in grande autonomia una personalità estranea ai partiti, e nominò Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia, antecedente e precedente di future analoghe incursioni extra partiche e tecniche per sopperire a debolezze delle istituzioni repubblicane.
La fine anticipata della legislatura segnò l’arrivo del Cavaliere di Arcore con cui Scalfaro ebbe rapporti tesissimi (firmerà la legge di bilancio del governo forza-leghista solo l’ultimo giorno utile). Si tratta dello scioglimento anticipato squisitamente presidenziale: l’articolo 88 cost. venne interpretato diversamente dal pre-1993 in cui i presidenti prendevano atto di crisi decise dai partiti. Dopo l’uscita (fuga) della Lega nord bossiana dal primo esecutivo Berlusconi, più per ragioni elettorali che per idiosincrasie su annunciate indagini giudiziarie, Scalfaro tornò su passi parlamento-centrici, e decise di non procedere allo scioglimento. Come pure sarebbe stato politicamente opportuno, e istituzionalmente lineare, dopo il cambio di paradigma con il nuovo sistema elettorale e le dinamiche bipolari in(tro)dotte.
Insomma, Berlusconi sempre sobrio evocò il colpo di stato e coniò il lemma “ribaltone”, pur avendo argomenti per invocare le urne. Invano. Legittimamente Scalfaro nominò il governo Dini pur in presenza di una maggioranza parlamentare, al contrario del 1993, incline al voto. La stessa logica sottese il passaggio dal governo Prodi I a quello D’Alema, nato con gli auspici del vecchio avversario Cossiga, per un centro-sinistra già incline al declino. Le informali richieste di Prodi affinché si tornasse al voto rimasero inevase.
Gradito a Craxi (di cui era stato ministro dell’Interno) e ai post comunisti (in chiave anti Cossiga) e per la indiscutibile caratura morale, è eletto con 672 voti, i due terzi dei grandi elettori di tutti i partiti tranne Lega nord, Rifondazione comunista e Alleanza nazionale.
Appena insediato annullò la parata del 2 giugno e il successivo ricevimento per sottolineare la necessaria sobrietà funerea. L’estate del 1993 – tra il vuoto del vecchio sistema e del nuovo che ancora non si palesava – la triade mafia-massoneria-servizi piazzò bombe a Milano, Firenze, Roma. La “repubblica dei partiti” venne ferita mortalmente e il presidente poté intervenire in misura cospicua nel sistema politico.
Si oppose al decreto Conso che depenalizzava i reati di finanziamento illecito ai partiti, un episodio che letto a distanza rivela un potere di veto eccessivo da parte della magistratura che pure agì partendo da corruzione reale. Inoltre Scalfaro esercitò una cospicua moral suasion per indurre i partiti a miti consigli. Ribadendo la centralità del parlamento, ma soprattutto della Carta costituzionale puntò a marcare simbolicamente le distanze dal predecessore picconatore e lanciare un messaggio distensivo al “nuovo” parlamento. Rinviò sei leggi, ma soprattutto produsse circa un migliaio di “esternazioni”, numero più alto in assoluto, proprio a segnalare la fase di passaggio da un presidente notarile a uno vigile e attivo.
Per provare a chiudere, a modo suo, la partita pur contraddittoria di Mani pulite, il neo insediato governo Berlusconi varò il decreto Biondi, allora guardasigilli. Il Consiglio dei ministri è convocato in un caldo pomeriggio di luglio mentre molti italiani sbraitano “Forza Italia!” davanti alla tv che trasmette una partita di calcio, ovviamente. Il ministro dell’Interno, il leghista Maroni, prova a eccepire circa il coté “salva ladri” della norma, ma Berlusconi insistette e tenne il punto. Il presidente Scalfaro espose dei rilievi a Biondi, che però non li raccolse tutti. Lo sdegno popolare fece bloccare il decreto in parlamento.
Tra il 1996 e il 1997 quando gli strali della Lega nord raggiunsero l’apice della violenza verbale e della minaccia secessionista, Scalfaro sfoderò le doti di uomo delle istituzioni, di militante antifascista, di cattolico fervente, ma laico servitore dello stato. Tenne il timone dritto quale garante dell’unità dello stato in una fase nazionale e internazionale di tensioni e mutamenti, (guerra in Kosovo e Serbia, attacchi mafiosi, tendenze secessioniste, sfiducia).
Da senatore a vita fu attivissimo nel promuovere la difesa e la conoscenza della Carta costituzionale, ergendosi a predicatore laico specialmente durante i governi Berlusconi. «Studiate la Costituzione nella parte della proclamazione dei diritti inviolabili dell’uomo», disse rivolgendosi agli studenti. E, pur con le proprie marcate preferenze di parte, aveva visto lungo.
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