- «Sette anni emozionanti» così li ha definiti il capo dello Stato nel discorso di commiato. Che poi se avesse scelto un rimando cinematografico, più azzeccata poteva essere la formula di sette anni “vissuti pericolosamente”.
- Dover gestire passaggi tanto delicati è toccato alla personalità più schiva e distante dall’esuberante protagonismo che domina la stagione di ora. Sergio Mattarella ha assolto al ruolo recando in sé, in certo modo “incarnando”, il meglio di tradizione e costumi repubblicani.
- Ora si dovrà scegliere il successore. Sarà questo parlamento che ha votato il taglio di un terzo della prossima rappresentanza in grado di uscire a testa alta da un percorso intriso da sempre di ostacoli e tagliole? Personalmente lo spero e credo possa essere il primo fondamentale augurio da formulare per l’anno appena iniziato.
«Sette anni emozionanti» così li ha definiti il capo dello Stato nel discorso di commiato. Che poi se avesse scelto un rimando cinematografico, più azzeccata poteva essere la formula di sette anni “vissuti pericolosamente”, perché al fondo questo è stato il mandato del nostro dodicesimo presidente: un percorso complesso, accidentato, costellato di ostacoli inediti, due su tutti, il grillismo al potere e la pandemia.
Dover gestire passaggi tanto delicati è toccato alla personalità più schiva e distante dall’esuberante protagonismo che domina la stagione di ora. Sergio Mattarella ha assolto al ruolo recando in sé, in certo modo “incarnando”, il meglio di tradizione e costumi repubblicani. Nello stile sobrio di sempre lo ha rivendicato anche nell’ultimo intervento pubblico prima del silenzio che si imporrà da oggi al tre di febbraio. Lo ha fatto ripercorrendo l’anima del suo mandato, finendo così col tracciare il profilo, almeno nel metodo, di colui o colei che dovrà succedergli.
La consegna del testimone
Location e postura parevano anch’essi confermare il rifiuto di una riconferma. Mattarella ha parlato in piedi dinanzi a una finestra (forse) aperta, ha ricordato l’abnegazione di medici e personale sanitario nella lotta non conclusa contro il Covid e spiegato perché rifiutare il vaccino equivalga a un’offesa nei confronti di chi non può riceverlo, ha declinato nel significato vero la nozione di patriottismo ed esortato i giovani a non adattarsi, ma “azzannare la vita” citando Pietro Carmina, il professore morto nel crollo di Ravanusa.
Ha detto altre cose il presidente nel congedarsi dagli italiani, tutte rivolte a offrire una cornice di valori e ancoraggi per una comunità – un popolo – che nei frangenti peggiori riscopre la forza della sua coesione e solidarietà. C’era attesa per come Mattarella avrebbe trattato il passaggio di mano in procinto di compiersi tra un paio di settimane, poco più.
Consegna del testimone come messaggio da inviare al paese da combinare alle regole d’ingaggio per il successore (ho controllato sulla Treccani, la declinazione al femminile è “succeditrice”, ma lo stesso redattore si incarica di chiarire che “la forma è per lo più evitata”. Sintesi coerente con la retorica di uomini, s’intenda maschi, ispirati in queste settimane a evocare una donna al Colle salvo guardarsi bene dall’imboccare la via!).
Stabilizzare la democrazia
Quell’attesa ha trovato conferma in primo luogo nello spessore umano e istituzionale dell’uomo. Perché sì, è vero, la spontaneità di Sandro Pertini resta proverbiale, quel suo colloquiare col paese senza giri di parole come dopo la tragedia del terremoto irpino segnava uno scarto fragoroso se confrontato alle paludatezze dei predecessori.
Ma a Mattarella è spettato un compito diverso, parecchio più complesso. Per prima cosa fare attraccare la zoppicante democrazia parlamentare a un pontile stabile dopo elezioni, le ultime, senza un vero vincitore e con l’aspirazione a governare di forze inizialmente inabili al compito. Quattro premier e cinque governi ha battezzato il presidente nei suoi sette anni di presidenza.
Cinque governi guidati da personalità non indicate dalle urne, vale a dire non espressione di una chiara maggioranza politica. Il che basterebbe a restituirci la delicatezza del compito: garantire la tenuta del nostro sistema parlamentare a fronte di uno scomporsi e ricomporsi del sistema politico.
La coscienza del dolore
Da questo punto di vista forse il miracolo più grande Mattarella lo ha compiuto in quella manciata di giorni a cavallo tra la richiesta di impeachment avanzata dall’allora capo dei 5 stelle e la stretta di mano tra Luigi Di Maio stesso e il capo dello Stato a suggellare il giuramento del politico in veste di ministro. In verità non solo quello è stato l’ostacolo che ha dovuto superare. La sua stagione è coincisa con altro, la Brexit per dire, non poca cosa in relazione al destino dell’unione politica del continente, e naturalmente la svolta più recente, quel Next generation Eu che dovrebbe archiviare strategie fallimentari del bilancio europeo.
Sullo sfondo il complesso di potenzialità e tragedie del nostro tempo. L’impatto del pontificato di Bergoglio, l’accelerazione della scienza sui vaccini, il dramma di migrazioni tuttora ignorate o gestite da un occidente privo di scrupoli nel monetizzare le vite.
L’elenco andrebbe completato, ma con ogni evidenza l’impronta maggiore l’hanno data i mesi ultimi, la pandemia coi suoi 137mila morti e sei milioni quasi di contagiati. Sarà che proprio la sofferenza quando si manifesta in forma collettiva – e la pandemia questo ci ha riservato – chiede un supplemento di rispetto per le vittime. Col suo stile Mattarella si è fatto interprete di una coscienza matura del dolore che affliggeva il paese e, chissà, forse sarà proprio questa dose di umanità a rimanere scolpita nella memoria.
Reggere l’urto
Le frasi di ieri, dunque, non sono state solo di ringraziamento da parte di una personalità che è riuscita a conquistare una stima condivisa sul campo, sotto questo aspetto l’acclamazione della platea scaligera la sera di Sant’Ambrogio col corredo di appello al bis aveva già chiarito l’umore di buona parte dell’opinione pubblica.
Ma salvo un improbabile coup de théâtre non ci sarà alcun bis e allora pensando ai prossimi sette anni conviene misurarsi con l’arte del possibile. Lo snodo vero risponde a due domande: quali tratti dovrà avere la prossima o il prossimo inquilino del Colle, e soprattutto se le leadership oggi in pista sono nella condizione di stringere un accordo in grado di reggere l’urto dell’Aula e del voto segreto.
L’assenso di Draghi
Qui, giocoforza, a entrare in scena è la politica, la capacità di valutare le condizioni per una soluzione credibile, rapida, condivisa. Volendo declinarle per punti si può dire così. Con un governo sorretto dalla più larga maggioranza della storia restringere l’arco del consenso al nuovo capo dello Stato equivale a prendere contromano e disfare in un lampo il percorso tracciato nell’ultimo anno, altro è allargare quella maggioranza a qualcuno che oggi non ne fa parte.
Per chiarezza: se la maggioranza che sostiene Draghi a Palazzo Chigi dovesse rompersi sul capitolo Quirinale, un istante dopo il governo non ci sarebbe più. Seconda notazione, nelle condizioni date qualunque personalità si finisca coll’individuare come la più adatta dovrà essere una scelta partecipata e condivisa dall’attuale presidente del Consiglio.
Tradotto, il futuro o la futura presidente non si potrà scegliere “senza” o, peggio, “contro” l’esplicito assenso di Mario Draghi e ciò per una ragione semplice, non rischiare un balzo nel vuoto con la perdita lungo la strada della figura che rappresenta la più alta garanzia di tenuta del sistema paese sul fronte interno e internazionale.
Il compito del parlamento
Terza e ultima osservazione, forse la più importante: il parlamento chiamato in seduta comune e con l’integrazione dei delegati delle Regioni a eleggere il capo dello Stato porta sulle spalle una responsabilità enorme. Lo so, l’enfasi gioca spesso brutti scherzi, ma lo penso davvero: ogni grande elettore ritirando quella scheda dovrà, in un sussulto di senso delle istituzioni, spirito repubblicano e, aggiungo, autostima di sé, capire che anche dalla sua azione discenderanno le sorti del dopo.
E allora se una bussola ciascuno di loro dovrebbe seguire sarà il massimo rispetto verso il lascito della presidenza di Sergio Mattarella, lascito riassunto venerdì sera, una volta di più, in una evocazione di autorevolezza, rigore morale e credibilità che il paese rivendica e che dovrà ispirare tutti nell’indicazione della soluzione migliore, la più alta e condivisa non solo tra leader e forze politiche, ma nel sentimento profondo di un popolo.
Sarà questo parlamento che ha votato il taglio di un terzo della prossima rappresentanza in grado di uscire a testa alta da un percorso intriso da sempre di ostacoli e tagliole? Personalmente lo spero e credo possa essere il primo fondamentale augurio da formulare per l’anno appena iniziato: riscoprire una quota di fiducia nelle istituzioni della nostra democrazia anche per sentirci un po’ meno “ospiti” e più cittadini. Quanto a chi si è appena congedato da quel Palazzo, il pensiero da rivolgergli si condensa in un semplice “Grazie presidente”.
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