- Il caso del ragazzino di Abbiategrasso che ha accoltellato l’insegnante non deve essere il pretesto per allarmismi o soluzioni tampone, ma per ridurre il numero degli studenti per classe e per un progetto qualificato di formazione degli insegnanti.
- I docenti dovrebbero già essere formati da un punto di vista psicologico, cosa che non avviene praticamente mai. La formazione psicologica è tutta a carico dei docenti.
- L’unico settore in cui invece per fortuna esiste una maggiore consapevolezza è quella degli insegnanti di sostegno, che oggi sono più di un quarto del corpo docente italiano e che lavorano, per esempio, su una progettazione personalizzata o sulla valutazione educante.
Il ragazzino che ha aggredito l’insegnante a Abbiategrasso un paio di giorni fa è stato arrestato per tentato omicidio. È l’esito peggiore a cui è arrivata rapidamente questa vicenda da prima pagina, sceverata dai media in modo compulsivo e allarmistico. Come spesso accade, di scuola sui giornali si parla soltanto a partire da casi eccezionali o estremi: la mamma finlandese che ritira i figli da scuola, il professore che ci prova con le studentesse, la preside accusata di avere una tresca con l’alunno, o ora il raptus in classe inatteso di un ragazzo di 16 anni.
Episodi singolarissimi danno la stura ai fiumi di commenti e analisi generazionali, pedagogiche, politiche, sempre impressionistiche e spesso di segno opposto e speculare: occorre più disciplina versus i ragazzi non li capisce nessuno. Quasi mai si riesce a far diradare questa burrasca di psicologismo improvvisato e mettere in fila alcune evidenze. Il primo problema delle scuole italiane non è la violenza di una pistola giocattolo ma la numerosità degli studenti. Soprattutto nei primi anni delle superiori il numero di alunni per classe supera i 25, i 27, e alle volte anche i 30. Questo dato ha un impatto sulla vita scolastica chiaramente disastroso, occorre focalizzarci su questa urgenza.
Soltanto immaginare di poter creare relazioni educative e svolgere attività didattiche efficaci con classi così numerose è un controsenso. Quello che viene subito decurtato è il tempo dell’osservazione, una parte – ovviamente – fondamentale in qualunque relazione educativa. Chi ha modo di seguire con attenzione 25 o 30 studenti? Per molti docenti, pensiamo quelli di storia dell’arte o educazione motoria che hanno orari con nove classi contemporaneamente, è impossibile persino impararne i nomi.
Dall’altra parte però questo deficit spesso assoluto di osservazione e di conoscenza dei ragazzi si ritiene forse di compensarlo, in nome di una pedagogia alienata, con un eccesso di valutazioni attraverso voti numerici. Così è molto facile che di uno studente di cui spesso non sappiamo letteralmente nulla, che non abbiamo mai osservato in classe, con cui non abbiamo parlato, possediamo una sfilza di decine di voti, segnati sul registro elettronico e disponibili in tempo reale anche alla famiglia: tre o quattro voti per materia a quadrimestre, tot voti scritti e tot voti orali persino in materie come l’educazione civica il cui intero monte ore non è più di tre o quattro all’anno.
Accade quindi che se un docente si accorge – e non è per nulla semplice – che un suo alunno stia male, stia attraversando un periodo difficile, il tempo di occuparsene non ce l’avrà, probabilmente a causa di una verifica. Certo potrebbe chiedergli di fare due chiacchiere fuori dalla classe, a ricreazione o alla fine delle lezioni, una telefonata il sabato pomeriggio, ma sarà comunque un’iniziativa personale, singola, comunque insufficiente. E questo può ancora avvenire nel caso lo studente stia venendo a scuola, ma se – come è frequente – avesse cominciato a essere spesso assente, se dopo una serie di interrogazioni andate male, non venisse se non sporadicamente, se stesse pensando di cambiare scuola o di abbandonare, quel tempo per un confronto con tra docenti e studenti sarebbe rarissimo o nullo.
A meno che: ci sia una famiglia alle spalle molto attenta, che s’impegni a supportare lo studente. Questi casi sono letteralmente straordinari: sarà la famiglia a mettere in campo forze aggiuntive, psicologici, professionisti di vario livelli; sarà la famiglia a premurarsi di produrre quelle certificazioni diagnostiche in grado di dare alla scuola la possibilità di prendersi una cura adeguata del caso. A quel punto ci saranno consigli di classe straordinari in cui farsi un’idea più articolata della situazione, docenti e genitori insieme.
Chi non ha questo genere di famiglia, o chi – come capita spesso – ha una situazione famigliare che è esattamente la fonte delle problematiche anche gravi, viene lasciato allo sbando. I professori non si accorgono di nulla e spesso, quando realizzano la situazione, non sanno o non possono fare nulla. E qui non dobbiamo ipotizzare soltanto diagnosi psicologiche difficili da riconoscere e da affrontare ma anche semplicemente il fatto che un ragazzino non stia mangiando perché la famiglia non ha soldi e quindi perda molto peso, che non ci veda da vicino per una malattia agli occhi non trattata, che sia insonne o stia sviluppando una qualche dipendenza.
Lo specialista non basta
Il ministro dell’Istruzione e – sic – del merito Giuseppe Valditara ha commentato la notizia, dichiarando che c’è bisogno dello psicologo a scuola. Negli ultimi anni le proposte per l’istituzione di uno psicologo scolastico sono state moltissime: le ultime nell’ordine di tempo sono di Forza Italia (scritta coi piedi), dell’Udu, l’Unione degli universitari, fatta propria dal Pd, e proprio di ieri dei gruppi di sinistra in Liguria. Senza entrare del merito di come integrare gli psicologi con il resto delle figure educative, c’è un non detto che dobbiamo invece esplicitare. Non è possibile pensare di affrontare soltanto con uno specialista a scuola un’infinità di problematiche che rientrano per la gran parte dei casi nella costruzione della relazione educativa.
I docenti dovrebbero già essere formati da un punto di vista psicologico, cosa che non avviene praticamente mai. Per legge anche nella selezione e nella formazione dei nuovi docenti questo genere di professionalizzazione dovrebbe essere garantita attraverso lo studio – per 600 ore – di quattro materie (pedagogia generale e sociale, psicologia dell’educazione, antropologia culturale, metodologie e tecnologie didattiche) e il conseguimento di una certificazione di 24 crediti. È inutile dire che nella stragrande maggioranza dei casi questo studio non esiste, e le certificazioni sono farsesche. La formazione psicologica è tutta a carico dei docenti. L’unico settore in cui invece per fortuna esiste una maggiore consapevolezza è quella degli insegnanti di sostegno, che oggi sono più di un quarto del corpo docente italiano e che lavorano, per esempio, su una progettazione personalizzata (il Pei, Piano Educativo Individualizzato) o sulla valutazione educante.
Visto che dobbiamo limitarci anche in questo caso alla buona volontà possiamo solo limitarci a segnalare due libri appena usciti: Nuovo PEI: domande e risposte. La normativa per genitori e insegnanti di Flavio Fogarolo e La valutazione che educa di Cristiano Corsini. Magari possiamo cominciare da qui.
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