Da svariati mesi si discute del “Patto per Napoli”, un accordo che ancora non c’è, e che dovrebbe consentire alla città di uscire dalla pesante situazione debitoria nella quale versa, grazie al sostegno finanziario dello stato. Eppure un Patto per Napoli è stato già sottoscritto, nel 1129. Nella fase terminale del Ducato di Napoli Sergio VII, stretto tra l’avanzata dei Normanni e le debolezze dell’amministrazione interna, ha siglato il Pactum con le famiglie dell’aristocrazia partenopea. Con il Patto per Napoli erano gli esponenti della nobiltà cittadina a prendere il sopravvento, esercitando i poteri sovrani nell’ambito dei propri quartieri, mentre un consiglio di notabili avrebbe preso le decisioni sulle questioni di carattere generale. Si trattava di un compromesso di corto respiro, un equilibrio instabile che preparava solo la fine del Ducato e l’avvento della monarchia normanna.

Con il Pactum del 1129 viene meno la forma del comune a tutto vantaggio di un reticolo di legami territoriali di vicinato, destinati poi a restare caratteristica di quel familismo amorale che viene studiato, a fine degli anni Cinquanta del secolo passato, da Edward C. Banfield nel suo libro Le basi morali di una società arretrata.

Passano solo pochi anni dal Patto per Napoli e nel 1140 Ruggero il Normanno, a fine settembre, giunge trionfalmente nella città di Napoli. Anche questa volta, i nobili napoletani fanno ricorso, prima dell’ingresso del monarca in città, per evitare la capitolazione, con l’obiettivo di mantenere un potere sostanziale nel nuovo assetto politico. In fondo Napoli era all’epoca dotata ancora di forza economica e di prestigio: sulla base di questi presupposti i nobili negoziano un accordo con il sovrano normanno per mantenere – per quanto possibile – il proprio potere sui quartieri cittadini, secondo lo schema che era stato concordato con il duca Sergio VII.

Insomma il Patto per Napoli c’è già stato e non ha generato frutti particolarmente encomiabili. Proprio l’esperimento del 1129 è stato il laboratorio di quella cultura di clan familiari con forte presa sul territorio, che ha lasciato tracce secolari nella storia della città.

Passato e presente

Tornando all’oggi il Patto per Napoli, così come sinora è stato formulato, non appare particolarmente virtuoso: lo stato deve accollarsi il debito pregresso, e poi – con i soldi del Pnrr – possono partire gli investimenti per lo sviluppo della città. Onestamente non si vede nemmeno lo scambio che è alla base di ogni patto: è il potere centrale a dover farsi carico del problema del passato, mentre sono i fondi comunitari a consentire la costruzione del futuro.

I tempi però sono cambiati. Lo stesso governo italiano, per poter ottenere le risorse del Next generation Eu, ha dovuto impegnarsi a riformare il sistema economico nazionale. Solo nel corso del 2021 sono stati definiti 51 adempimenti che saranno monitorati dalla Commissione europea.

Per diventare credibile, la città di Napoli deve assumere impegni di trasformazione nel modello di gestione amministrativa. Non mancano i fronti su cui impegnarsi: nel bilancio del comune ci sono 2 miliardi di debiti tra tasse locali non riscosse e multe non pagate, la gestione del patrimonio immobiliare non brilla per rendimenti, i servizi pubblici registrano una qualità nettamente sotto la media nazionale, le società partecipate non stanno in testa delle classifiche nazionali di produttività ed efficienza. Le risorse finanziarie, di per sé, non costituiscono garanzia di successo. Dopo il terremoto del 1980 sono arrivati in Campania 15 miliardi di euro: basta leggere le risultanze della commissione Scalfaro per comprendere l’intreccio di legami che si è allora determinato tra criminalità, politica locale e imprenditorialità protetta.

Applichiamo invece a Napoli il modello del Pnrr: sostegno economico in cambio di riforme, con un patto che sia davvero tale, generando uno scambio virtuoso che non affronti solo il baratro del debito pregresso ma che si ponga anche la questione del governo presente, nell’interesse dei cittadini napoletani e dei contribuenti di tutto il paese.

La strada di costituire una società per azioni che gestisca a stralcio il debito del comune, pur tornata di attualità in queste settimane, non appare percorribile: le passività superano largamente le attività, anche nel caso in cui vengano conferite tutte le proprietà immobiliari del comune. Inoltre, il solo pagamento degli interessi annuali sul debito pregresso genererebbe una struttura di conto economico tale da richiedere una continua ricapitalizzazione della società da parte degli azionisti. La lezione del Pactum del 1129 tra il duca Sergio VII e gli aristocratici napoletani dovrebbe essere tenuta presente oggi. Dietro l’angolo rischia sempre di spuntare quella logica dei clan familiari che ha condizionato la cultura cittadina. Non serve fantasia istituzionale per risollevare Napoli. Occorrono rigore, serietà e integrazione: verso la nazione e l’Europa.

 

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