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Oggi a Roma la vicepresidente della regione Emilia Romagna lancia la sua «cosa».
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Non un partito, neanche una lista, ma una «comunità di battaglie intersezionali», al centro la giustizia sociale e ambientale. A tenerla a battesimo Letta e Conte, Barca e Alessandro Zan.
- La sua è la biografia perfetta di una nuova stella della sinistra. Che dai tempi di OccupyPd ha amministrato con cura il suo tesoretto politico.
Sostiene Elly Schlein che «ci sono piazze, quella ecologista dei Fridays for Future, quella dei Black lives Matter, quella pacifista, che marciano già unite, anche se la politica è ancora divisa». Anzi di più.
Scrive Schlein nel suo ultimo libro La nostra parte (Mondadori), una specie di suo manifesto, che ci sono «fiumi» di mobilitazioni, «nate spontaneamente, fuori dai circuiti dei partiti» che ci dicono «molto di quel che manca all’offerta politica attuale», ci dicono che «nella società emerge una visione che tiene insieme le sfide cruciali su cui giochiamo il futuro: la transizione ecologica e la lotta alle diseguaglianze, per i diritti e il lavoro di qualità». Ma «la politica è rimasta indietro e si ostina a dividere ciò che nelle piazze sta già marciando insieme». La politica dunque - ovvero i partiti? - dividono. Invece la piazza unisce.
È la versione di Elly, che quando ha chiuso le bozze del libro però non aveva fatto in tempo a vedere che erano divisi non i partiti in parlamento, non «la politica» per dirla con le sue parole, ma – sfortunatamente, ma inevitabilmente, e inesorabilmente – erano divise le piazze dei pacifisti di fronte alla guerra di Putin contro Kiev: il popolo di Roma San Giovanni contro l’invio delle armi all’Ucraina appena deciso dal parlamento con voto largamente bipartisan; e quella di Firenze Santa Croce, a favore senza se e senza ma. In tv, interrogata sul punto, lei sfuma il contrasto: viene «da una cultura del disarmo», spiega, per lei la spedizione degli armamenti «è un dilemma e una preoccupazione».
Unire è difficile
La morale provvisoria – provvisoria è l’augurio – è che «unire è difficile», come spiegava già nel 1977 un prezioso libretto che affrontava una lacerazione fra fratelli strettissimi, quelli del Pdup, il Partito di unità proletaria, il primo dei tanti tentativi di unire la sinistra (nel caso in esempio si trattava della «nuova sinistra italiana», per lo più extraparlamentare); sul tema delle divisioni fra uguali o quasi uguali si misuravano giganti come Vittorio Foa, Luigi Pintor e Valentino Parlato. Ma questa sarebbe un’altra storia. Eppure già lì si prendeva atto che quella che sembrava una visione comune fra quasi identici, comune non era. E non era neanche la prima volta.
Qui però parliamo delle nuove generazioni, le “Y”, i millennials, quelli di oggi. Oggi a Roma Schlein ha promosso quella che definisce «un’iniziativa collettiva», della «politica del noi», «una rete» con il beneaugurante titolo di «Visione comune», sette panel «plurali e intersezionali» per tenere insieme «giustizia sociale e climatica», previsti «intermezzi» – così li definisce la convocazione – di Fabrizio Barca, Paolo Berizzi, Alessandro Zan e Angelica Villa e ancora «spazi in cui amministratori e attivisti in arrivo da tutta Italia possano incontrarsi e scambiarsi pratiche».
L’incontro si svolgerà sulla via Prenestina, in un ex centro sociale molto molto radicale che una vittoriosa battaglia dei cittadini ha trasformato in «Parco delle Energie». All’evento sono annunciate molte personalità che, per quanto possano avere – si presume, si auspica – una «visione comune», nel quotidiano militano in organizzazioni diverse, persino molto diverse. O anche in nessuna. Zan e Pierfrancesco Majorino, per esempio, sono un parlamentare e un europarlamentare del Pd, e così Peppe Provenzano, che di quel partito è il vicesegretario; Rossella Muroni, a lungo presidente di Legambiente e nel 2018 eletta in parlamento nella lista di Liberi e uguali, si è fatta una componente tutta sua nel gruppo misto, si chiama Facciamo Eco; Arturo Scotto è il coordinatore nazionale di Art.1, quindi il numero due, dopo Roberto Speranza; Marco Grimaldi è di Sinistra italiana ed è capogruppo in Piemonte della lista Liberi Uguali Verdi; Massimo Bugani è assessore M5S a Bologna. Special guest, si collegano da remoto Enrico Letta, segretario del Pd, e Giuseppe Conte, presidente sub iudice dei Cinque stelle.
L’iniziativa si rivolge a un migliaio di persone che si sono iscritte alla giornata di lavori, come comunica il portavoce di Schlein, e la tesi di fondo è per loro: e cioè che ci siano tanti militanti, attivisti e dirigenti che hanno una «visione comune» ma lavorano da trincee diverse, e concretamente fin qui poco sommabili. O che quando si sono sommate, aggiungiamo noi, lo hanno fatto per il giorno dell’apertura del seggio; poi è stata è subito scissione.
Schlein per ora giura che non farà una nuova «cosa» politica, un partito né tantomeno un «partitino». Promette invece l’organizzazione di «una comunità» di battaglie intersezionali, una rete appunto: «Possiamo riscattare la politica facendola in modo diverso, superando le contraddizioni dei grandi contenitori e le frammentazioni dei piccoli attorno a una visione condivisa di futuro», scrive nel suo libro, «possiamo fare rete in modo trasversale con tuttə coloro che la pensano nello stesso modo, per costruire insieme un nuovo campo ecologista, progressista e femminista insieme, in cui ricominciare a sentirci pienamente rappresentatə».
Uno spirito meno ispirato si chiede: ma perché le persone «che la pensano nello stesso modo» non stanno già nello stesso partito, o per lo meno nella stessa coalizione? Sa bene anche Schlein, del resto, che che si fa presto a dire unità. Lei stessa infatti ha spiegato a più riprese che «l’unità va fatta nella chiarezza, abbandonando l’ambiguità su alcuni temi, come ad esempio l’immigrazione». Si riferiva al Pd che, benché al governo, non cancellava la legge Bossi-Fini. Ieri come oggi, peraltro.
Oltre il Pd
Dal Pd del resto Schlein è andata via, giovanissima, in una delle varie scissioni finite male, questa in particolare finita nella sigla «Possibile» e infine in una specie di dissolvenza.
Classe 1985, bolognese ma nata a Lugano, madre italiana e padre americano, nel 2012 Elly parte per Chicago, volontaria nella campagna elettorale di Barak Obama. Torna, nel Pd è nell’area di Pippo Civati che nel maggio del 2013, dopo i 101 voti (democratici) che mancarono a Romano Prodi per essere eletto al Quirinale, si mette alla testa della rivolta della «base», il movimento OccupyPd, e si schiera poi contro il sorgente governo di larghe intese di Enrico Letta. Proprio il segretario del Pd che oggi, nella sua seconda vita politica, offre a Schlein il ruolo da «osservatrice indipendente» delle Agorà: come saggia, garante, madrina.
Civati, da deputato, in quel 2013 voterà no alla nascita del governo Letta, anche se l’anno dopo in direzione voterà no alla sua defenestrazione. Unico no, quello dei civatiani. E infatti sebbene fra il premier e il disobbediente le distanze politiche fossero forti, gli attuali inquilini del Nazareno lo ricordano come «una persona sempre corretta».
Alle elezioni europee del 2014 la sinistra radicale si riunisce in L’Altra europa per Tsipras, in nome dell’eroico presidente greco che tira fuori il suo paese dalla crisi benché ridotto in ginocchio dall’allora Troika.
A capo del Pd c’è Matteo Renzi. I civatiani scalpitano ma restano dentro il partito, Schlein è candidata e eletta a Bruxelles. Sono le europee del Pd al 40 per cento (del 58 per cento dei votanti però), quel numerone che ipnotizza il segretario, su cui vuole costruire un partito a sua immagine e somiglianza, cioè bullo e pronto a cacciare chi non si adegua allo stil novo fiorentino.
I primi ad andarsene infatti sono proprio i civatiani: succede dopo le regionali del 2015 in cui Sergio Cofferati, che perde le primarie contro Raffaella Paita, denuncia «un problema di inquinamento con i voti della destra». Inascoltato, sbeffeggiato, lascia. I civatiani stanno dalla sua parte. Paita poi perderà rovinosamente (oggi è in Italia viva). Le indagini diranno poi che Cofferati aveva ragione.
Civati fuori, Schlein invece resta nel gruppo europeo e lavora a capofitto ai dossier, la riforma del regolamento di Dublino, l’Agenda 2030, il contrasto alle mafie. Alle politiche del 2018 i civatiani confluiscono in Leu, la lista Liberi e uguali capitanata prima dall’amletico Giuliano Pisapia poi dall’ex magistrato Pietro Grasso, che non si accorda con il Pd di Renzi e guida la formazione in autonomia.
La corsa di Leu è un volo ad alto rischio. Con prudenza Elly, pure invocata, se ne tiene alla larga. La lista va maluccio, prende poco più del tre per cento. E così mentre i compagni di strada disperdono credibilità dalla carlinga, lo standing dell’eurodeputata è intatto.
Prudenza tattica
Nel 2019, di nuovo alle europee, è il Pd a pregarla di ricandidarsi, e stavolta è il Pd di Nicola Zingaretti. Dall’altra parte la corteggia anche «La Sinistra», nuovo fidanzamento elettorale fra i superstiti della lista L’Altra Europa per Tsipras (stavolta sono rimasti solo Sinistra Italiana e Rifondazione comunista).
Lei, dopo lunghe meditazioni, fa il gran rifiuto. Dice no agli uni e no agli altri. Unire, appunto, è difficile: vorrebbe metterli insieme e invece quelli insieme non stanno: «Ho fatto ogni sforzo possibile con tutti gli interlocutori per costruire un progetto comune nell’Unione e nel paese, per evitare frammentazioni inutili.
Purtroppo non è andata così», spiega, «Ringrazio di cuore tutti per le proposte, dai miei compagni di strada al Pd, la loro non era per niente scontata vista la mia storia, ma è il segno che il nuovo segretario vuole aprire una nuova fase nel dialogo con la sinistra. E mi ha colpito la generosità di alcune aree, che mi hanno offerto sostegno anche in quell’eventualità. Ho lavorato sempre per unire. Per questo non voglio né posso fare scelte divisive per le persone con le quali ho lavorato fianco a fianco per anni».
Sostiene il Pd o la sinistra? Tutti e nessuno: «Sosterrò in tutto i candidati con i quali condivido i valori, indipendentemente dalle liste in cui sono». Vista con affetto, siamo alla «visione comune» ante litteram. Secondo i compagni lasciati al loro destino, invece c’è del calcolo: evitare le battaglie difficili, preservarsi dai conflitti che dilaniano la sinistra, conservare un profilo in qualche misura super partes, insomma prepararsi a migliori approdi.
Lei invece spiega la scelta con il suo afflato unitario: «È sbagliato spaccare le piazze chiedendo loro se si sentono più ecologiste o più di sinistra, se difendono prima i diritti ambientali o quelli sociali», replica a chi la incalza a scegliere da che parte stare, «I tempi per costruire una convergenza sono maturi. Ma in troppi non l’hanno pensata così».
La Sinistra in effetti va di nuovo male, non acciuffa il quorum. E il prestigio di Elly Schlein è di nuovo ancora intatto. Chi l’ha aiutata a scegliere bene? Romano Prodi. Che poi è il suo papà politico e spirituale di sempre, dai tempi dei 101: «Prodi non ha chiamato per convincermi. Mi ha chiesto: che cosa vuoi fare? Abbiamo ragionato insieme».
Siamo al 2020. Alle elezioni regionali dell’Emilia Romagna la Lega tenta di espugnare la Regione. Salvini scorrazza in regione. Schlein stavolta si lancia: sta nella coalizione, sostiene il candidato presidente Stefano Bonaccini, guida la lista Coraggiosa, nella quale si riversa il voto delle sardine, fenomeno all’epoca freschissimo con epicentro a Bologna. Schlein è, con prudente discrezione, il loro riferimento politico: brillante, preparata, dice tante cose “di sinistra” – sull’ecologia, sul fisco e sulla ridistribuzione, sul lavoro contro il precariato, sul patriarcato, sui diritti civili, sull’accoglienza, sull’antifascismo - ma nelle interviste sta attenta a non straparlare. Nelle piazze è amatissima.
Diventa virale un suo video in cui prova a braccare Salvini, che fugge via visibilmente imbarazzato. Coraggiosa prende ventimila voti, in realtà è solo il 3,77 per cento ma è esattamente quello che serve a rilanciare il Pd post renziano e viene salutata come un fenomeno. Scrive El Paìs: «Elly Schlein, la nueva estrella de la izquierda italiana». Lei sorride con understatement: «E dire che avevo inteso la mia come una candidatura di servizio».
Un buon servizio, ottimo: Bonaccini vince, Schlein diventa vicepresidente della regione, riceve una delega su misura, il contrasto delle diseguaglianze e la transizione ecologica. («Per la giustizia sociale e ambientale, insieme» sarà il sottotitolo del suo ultimo libro).
Passa un anno, siamo all’ottobre del 2021, alle amministrative. Le liste di sinistra in giro per l’Italia se la contendono alle iniziative. Lei sceglie con cura a chi offrire il suo patrocinio. A casa sua, Emilia Romagna coraggiosa si lega sentimentalmente e elettoralmente alla lista Coalizione civica e sostiene il candidato sindaco Matteo Lepore. In città soffia un fortissimo vento di sinistra.
Lepore stravince con il 62 per cento. La lista prende il 7,32; in realtà ad andare strabene sono i candidati della civica cittadina, come Emily Clancy, la più votata dai bolognesi (che infatti diventa vicesindaca), plebiscitata anche più del candidato Mattia Santori, capo-sardina finito al sicuro nella rete, pardon nella lista del Pd.
Comunque, ancora una volta il tesoretto politico di Schlein, sempre ben amministrato, è intatto. Anzi cresce, e frutta. Anche perché adesso nel Pd c’è Letta, e «quel» Letta non è più lo stesso Letta del 2013. Ovvero: sta in un governo di larghe intese, stavolta addirittura con la Lega, ma predica la svolta a sinistra del Pd. E il futuro ritorno a una coalizione di sinistra. E a questo giro Letta è incantato da Schlein. «È colpito», spiegano al Nazareno: «Fra i due c’è empatia, lei incarna lo spirito della coalizione per come lui cerca di costruirla», «Letta è colpito dalla serietà con cui porta avanti il lavoro delle Agorà democratiche, che non è un dialogo fra gruppi dirigenti ma il coinvolgimento dal basso di quelli il Pd ha perso o ha escluso negli anni passati». Viene fatto notare che da quando di due si parlano il segretario dem a cominciato parlare di coalizione «democratica, progressista e femminista». Come dice sempre lei.
E ora siamo al dunque, a oggi, alla «visione comune». Chi si è buttato anima e corpo ad organizzare l’iniziativa di oggi respinge ogni insinuazione utilitaristica: «Abbiamo scelto di abbattere per una volta sul serio tutti i recinti e di partire da una visione comune sul Paese che vogliamo», spiega Marta Bonafoni, consigliera regionale del Lazio, eletta nella lista civica di Nicola Zingaretti, oggi anche presidente dell’associazione Pop, «La scelta del posto rispecchia tutto questo: abbiamo deciso di stare dentro un luogo con un conflitto aperto, che ci riguarda. Decidendo di dare vita a Visione comune al Parco delle Energie diciamo da che parte stiamo: dalla parte della conversione ecologica vera delle nostre città, contro il predominio del cemento».
«Il tema è proprio superare la frammentazione e sviluppare una visione comune nell’intero centrosinistra, su proposte concrete e condivise», spiega Rossella Muroni, «Un modo per lavorare insieme su una cultura comune che sia reale e non solo forzata all’ultimo minuto perché serve compilare il programma di coalizione alla vigilia delle elezioni».
«Con Elly e molte altre donne, variamente impegnate in politica e nel sociale, lavoriamo da tempo in rete a varie battaglie intersezionali», racconta Anna Falcone, ex Lista Ingroia, ex Leu ed ora fondatrice di “Primavera della Calabria”, «Ma serve un “upgrade” del nostro modello sociale e politico, uno scatto in avanti, una rete fra persone anche diverse che inneschi un salto di qualità». Majorino, che invece è del Pd, anche se della sinistra del partito, la mette giù più semplice: «Partecipo a Visione comune perché ho voglia di fare battaglie comuni. Essendo molto radicali sui contenuti. E decisi a lottare a testa alta».
Mistero Elly
Schlein farà «la sua parte». Ma quale? Chi la sente, ascolta un fiume di parole e capisce poco. Difficile che si scopra davvero, neanche oggi. La sua parte, quella di cui parla nel suo libro, è la parte di una lista in proprio da portare in dote all’alleanza con il Pd? Possibile ma molto difficile. Anche perché nel lato sinistro della futura coalizione progressista ci sono già solo posti in piedi. C’è una folla: c’è Sinistra italiana di Nicola Fratoianni, che da qualche mese si muove di concerto con i Verdi di Angelo Bonelli.
C’è una rete di amministratori progressisti capitanata da due giovani, il romano Amedeo Ciaccheri e il cagliaritano Massimo Zedda. Letta incontra tutti, mostra attenzione, sostiene, incoraggia. Il suo spirito ecumenico ed inclusivo è incontestabile. Ma è incontestabile anche la convenienza del Pd per il modello di coalizione “alla romana”: quello furbo delle amministrative per il Campidoglio, dove il partito svetta fra «i sette nani», tanti piccoli alleati, tutti religiosamente divisi, più utili al socio che comanda che a sé stessi.
Del resto Schlein è così gradita a Letta che può scegliere di fare tutto: persino fare come la “sardina” Santori, ovvero lasciarsi offrire un seggio da indipendente alle prossime politiche, nelle liste della casa. Chi da quelle parti cerca di evitare concorrenze interne lascia balenare l’idea che potrebbe anche aspettare e succedere al presidente Bonaccini alla guida dell’Emilia Romagna. E intanto magari dare una mano, dall’esterno ma non troppo, al favorito del prossimo congresso (Letta, naturalmente).
Per il Pd va bene tutto: «Lei dialoga e recupera alla politica e alla coalizione tanti che ci guardano ancora con sospetto», spiegano al Nazareno, insomma «Schlein fa già la cosa giusta».
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