- Un sondaggio riservato e commissionato dal Pd dà i democratici e i meloniani appaiati al 21 per cento
- Fra Salvini e Meloni è tregua. Promettono fedeltà all’alleanza, ma la scommessa è che sarà lei a comandare
- Nel “campo largo” sono vietati gli scossoni. Il ministro Guerini: i riformisti guidino il cambiamento al nord
Un sondaggio riservato che circola negli ambienti del Pd dice con molti numeri e diverse serie storiche qual è la sfida di domani per Enrico Letta. Il cuore sta in uno di quei numeri, un numero che si ripete due volte: 21,1. È la percentuale a cui sarebbe arrivato il Pd secondo quel sondaggio. È il massimo da anni. Sempre lì, a quota 21,1, è arrivato anche Fratelli d’Italia. Lega e Cinque stelle invece sono in caro. Lunedì si capirà se la stima ci azzecca o se «i sondaggi dicono bugie», come ha strillato giovedì sera Giorgia Meloni dal palco di Verona. Fatto sta che il segretario del Pd e la presidente di FdI in questa tornata elettorale hanno lo stesso obiettivo: diventare il primo partito d’Italia.
Se non fosse per questo, all’apparenza, il voto di domani in realtà non sarebbe un test nazionale. I referendum sulla giustizia con ogni probabilità non raggiungeranno il quorum e saranno rapidamente archiviati proprio dalla Lega che li ha promossi. Le amministrative interessano “solo” nove milioni di persone. Dei 26 capoluoghi di provincia che alle 7 di domenica aprono i seggi – fra cui quattro di regione, Catanzaro, Genova, L’Aquila e Palermo – sono poche le città che possono davvero dare indicazioni eloquenti per le segreterie di Roma. Per questo tutti gli alti comandi dei partiti assicurano che dai risultati delle urne non scaturiranno effetti sugli equilibri nazionali. È vero che rispetto alle 19 città oggi governate dalla destra, e le 6 dal centrosinistra (e un’unica governata da un ex Cinque stelle, la Parma di Federico Pizzarotti) non si produrranno grandi colpi di scena. Il centrosinistra parte da quello che viene definito «un misero sei» relativo alla tornata del 2017, «anno nero» sotto il regno di Matteo Renzi. Ma in realtà da una parte e dall’altra, chi minimizza l’impatto dei prossimi risultati non dice la verità. Almeno non la dice tutta.
Il derby Meloni-Salvini
Nelle ultime ore i leader del centrodestra hanno siglato una tregua in vista delle urne, una tregua destinata a saltare appena gli exit poll diventeranno numeri solidi. Dopo mesi di freddezza, sgambetti, incontri saltati e mancati accordi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni provano a mostrarsi più affiatati. Per richiesta del leghista giovedì sono saliti insieme sul palco della città di Giulietta e Romeo, storica roccaforte di destra, dove la Lega ha dovuto arrendersi all’uscente Federico Sboarina, FdI per evitare di spianare la strada all’ex leghista Flavio Tosi, sostenuto da Forza Italia e Italia viva. Per Salvini l’alleanza non è in discussione: «I cittadini ci chiedono di essere uniti perché il centrodestra unito vince», ha spiegato dal palco. E così sarà, assicura, anche nel 2023, «io mi rifiuto di pensare a corse separate e litigiose». Ma a FdI, che ha il vento in poppa, l’ex ministro dell’interno di Conte ora grande elettore di Draghi suscita ancora diffidenze. Lo si capisce dalle parole del capogruppo al senato Luca Ciriani: «Chiediamo ai nostri alleati chiarezza sugli intendimenti per il futuro, per noi c’è stato sempre un solo campo di gioco».
Sotto gli ultimi minuetti più o meno cortesi cova il fuoco. Gli occhi sono puntati non solo nelle città in cui Lega e FdI sostengono candidati diversi, come Catanzaro (Wanda Ferro, meloniana, contro Valerio Donato, ex Pd sostenuto da Lega e Fi) e Viterbo (l’ex missina Laura Allegrini contro Claudio Ubertini, sostenuto da Lega e Forza Italia). I due partiti si peseranno anche nelle competizioni interne a sostegno dello stesso candidato.
I meloniani sono furibondi. Subito dopo le amministrative si aprirà il tavolo delle regionali. Ma qui quella che viene definita «la strategia di Giorgia» è già stata sconfitta. L’idea della leader in pectore del centrodestra era tenere il candidato presidente della Sicilia, regione che va al voto a ottobre, in un computo separato rispetto alla tornata regionale del prossimo marzo. In soldoni: in cambio della conferma del presidente Nello Musumeci, accettare il candidato sindaco di Palermo Roberto Lagalla, quello che non ha partecipato alle commemorazioni della strage di Capaci e a cui sono stati arrestato due candidati, uno forzista e l’altro di FdI proprio ieri pomeriggio, per presunto voto di scambio. Sullo sfondo un pericolo denunciato dal Pd, che ieri ha chiesto il ritiro di Lagalla: il ricoagularsi di vecchi e noti poteri opachi.
Ormai però il nome di Musumeci è finito sul tavolo insieme a tutte le altre candidature regionali. Quindi se Fdi davvero manterrà la Sicilia – e non è scontato – dovrà rinunciare ad avere il candidato del Lazio, che considera suo diritto naturale. Ma un colonnello meloniano avverte: «E no. Musumeci è nella casella “secondo mandato”. Come i leghisti Massimiliano Fedriga in Friuli Venezia Giulia e Attilio Fontana in Lombardia».
Si vedrà. Fdi aspetta conta sull’esito delle amministrative per certificare il cambio di guida della coalizione. L’ultima battaglia Lega-Fdi si svolge al Nord, dove la Lega è in crisi di consenso. «Al Sud», viene spiegato, «lo smottamento a nostro favore è già avvenuto». Battaglia in cui Forza Italia resta per oro poco più di una comparsa.
Il Pd, vincere senza vincere
Nell’altro campo, in quello “largo” – ma fin qui poco più che immaginario – del centrosinistra quasi ovunque alleato con i grillini («nel 70 per cento dei casi», calcola Francesco Boccia, ma in pochissimi di questi casi c’è il simbolo “ufficiale” dei Cinque stelle) circola la consapevolezza che «stavolta giochiamo in trasferta», espressione che circola al Nazareno, «sarà difficile ribaltare i numeri» che sono appunto 19 a 6 a proprio sfavore, «tanto più che in quattro capoluoghi la destra ha pescato fra i nostri ex».
È successo a Carrara, Viterbo, Catanzaro e Taranto. «Si parte in svantaggio» eppure «tira un vento positivo, vedrete, le sorprese migliori le darà il Pd», è la previsione. A Verona per esempio, data la spaccatura delle destre, è possibile che l’ex giocatore della Roma Damiano Tommasi, un democratico che parla ai cattolici, passi al ballottaggio; da Spezia, Cuneo, ma anche da Belluno, Padova, Como, Crema e Lodi si aspettano altre buone notizie. Anche a Rieti, Viterbo e Frosinone si spera di giocarsela al secondo turno. Letta ha condotto una campagna a tappeto città per città, «modello Siena» dove, per essere eletto alla camera nell’ottobre 2021, andò in tutte le piazze dei trentacinque comuni della provincia.
Il segretario punta su un recupero del suo partito al nord e anche per questo ha deciso di chiudere ieri a Lodi, a fianco del candidato venticinquenne Andrea Furegato, golden boy del nuovo Pd lettiano. Lodi è città cerchiata in rosso nell’elenco dei comuni: è la città dei 200 bambini figli di immigrati esclusi dalle mense scolastiche dal sindaco leghista. Ma anche la città del calvario giudiziario dell’ex sindaco Simone Uggetti, arrestato, condannato per turbativa d’asta poi assolto, poi ancora sentenza annullata e tutto da rifare. Ed è la città dell’ex sindaco oggi ministro della difesa Lorenzo Guerini: «A Lodi abbiamo costruito un’alleanza larga, di centrosinistra e con forze civiche. Abbiamo un ottimo candidato, c’è entusiasmo e possiamo fare un bel risultato». Ma il vero lavoro è, appunto, in vista delle politiche: «Le elezioni al nord dimostreranno buona salute del Pd e credibilità dei suoi amministratori. Deve essere un passaggio utile anche in vista del prossimo anno: al nord più che la formula politica vale il messaggio che il Pd vorrà darà in queste terre che aspirano a buona amministrazione, apertura all’Europa e credibilità e coraggio della politica, anche nell’ambizione riformatrice. Qui c’è bisogno sempre più di un Pd riformista che guidi il cambiamento piuttosto che difendersi da esso».
Prova per le politiche
In queste ultime settimane il Pd ha messo a punto la strategia di comunicazione che, se va tutto bene, sarà sviluppata per le politiche. Basta buttare un occhio alle dichiarazioni dei candidati con il marchio dem – che compare in tutti i 26 comuni capoluogo – e dei dirigenti che hanno girato per le città (oltre Letta e il suo vice Peppe Provenzano, le più attive sono state le due capigruppo Simona Malpezzi e Debora Serracchiani) per ritrovare la serie delle parole chiave, «i pilastri» comunicativi scelti. La guerra della Russia contro l’Ucraina è via via scomparsa, anche se i sondaggi dicono che le posizioni disarmiste di Lega e Cinque stelle non hanno premiato quei partiti. E non è arrivato l’effetto negativo aspettato dall’interventismo del Pd. Salgono nelle citazioni i temi del lavoro, del salario minimo e della giustizia sociale, quelli dei diritti civili, la sostenibilità ambientale e il caro-bollette. Il segretario si è fatto immortalare nei molti «bagni di folla»: il format della foto ricorrente è in cammino per le strade delle città a fianco dei militanti, in prevalenza donne, una versione light e democrat del Quarto stato di Pellizza da Volpedo. Anche ai comunicatori è ben presente l’esperienza della scorsa tornata di Giuseppe Conte: piazze piene, militanti persino in delirio al sud, ma poi urne vuote, secondo l’inossidabile massima di Pietro Nenni.
Al nord i comizi insistono anche sul tema della sicurezza, «che non è un tema di destra». Letta e i suoi hanno scelto una strategia di presenza sulla stampa e sui media locali. C’è anche soddisfazione per il riequilibrio di genere nelle liste e fra i candidati, come promesso durante la desolante tornata di ottobre. Stavolta ci sono nove donne su ventisei candidati a sindaco.
L’asse giallorosso
A differenza delle attese della vigilia, il test per la coalizione giallorossa in realtà sarà meno cruciale rispetto alle prove che attendono gli alleati in parlamento. In diciotto città lo schieramento si presenta come una coalizione fra centrosinistra e M5s. In sole quattro città i Cinque stelle presentano un candidato alternativo. In quattro i grillini non presentano il simbolo e non sono in coalizione neanche nascosti nelle liste civiche. Le amministrative da sempre non costituiscono una prova di forza per il movimento. Per questo è stato scelto un profilo basso che consentirà di non poter pesare i voti. La promessa già stretta è di evitare gli scontri del post voto: per luglio Pd e Cinque stelle preparano le primarie unitarie di coalizione in Sicilia in vista del voto di ottobre. E altrettanto, con tempi più lenti ed esiti ancora più incerti, si sta facendo in Lazio e Lombardia, che invece andranno al voto nel marzo 2023. I guai per l’asse giallorosso arriveranno piuttosto da Roma. E cioè dalle camere.
Monnezza sull’alleanza
È lì che rischiano di aprirsi crepe fra Letta e Conte, anche se entrambi si sono promessi di evitare strappi. Il 21 giugno nelle camere sarà votata la mozione di maggioranza sulla guerra in Ucraina dopo le comunicazioni del premier in vista del Consiglio europeo. L’appuntamento è stato annunciato con rulli di tamburo e ammiccamenti fra Salvini e Conte. Eppure in parlamento sono al lavoro gli sherpa per scalpellare una formula di che combini le parole «pace» e «diplomazia» che salvi la faccia tanto ai “pacifisti” gialloverdi quanto ai favorevoli all’invio delle armi, del resto già autorizzato fino a fine anno.
L’altro punto di frizione è l’inceneritore romano voluto dal sindaco Roberto Gualtieri. Il Pd sottovaluta lo scontro interno al M5S fra dialoganti e intransigenti. Il 7 giugno in commissione bilancio la delegazione grillina ha presentato un emendamento al dl aiuti che attribuisce a Gualtieri i poteri di commissario straordinario al Giubileo che gli consentono di scavalcare le competenze della regione in materie di rifiuti, dunque di varare l’inceneritore. Il testo chiede che i poteri speciali del commissario siano esercitati nel rispetto degli obiettivi del Pnrr, in sostanza escludendo le scelte che danneggiano l’ambiente come da direttive 008/98/Ce, 2010/75/Ue e 2003/87/Ce. Il voto arriverà dopo il 21 giugno. Intanto le immagini della Capitale invasa dall’immondizia, ai livelli degli anni di Virginia Raggi, fanno il giro dei media internazionali.
Il Pd ha fatto sapere che non voterà l’emendamento, che in commissione c’è una maggioranza pro inceneritore e che nel caso non ci sarà da stracciarsi le vesti se lì dovesse materializzarsi l’aiutino di Fratelli d’Italia (a loro volta divisi sul tema). Ma lo scoglio li aspetta in aula. Per il Pd, visti i precedenti dei decreti aiuti, è ragionevole prevedere la lettura unica per la conversione del testo: tradotto, sarà difficile rinunciare al voto di fiducia. Ma in questo caso al ministro Stefano Patuanelli, capodelegazione dei grillini al governo, è sfuggita la promessa di dimissioni. Da una parte e dall’altra viene assicurato che non ci saranno rotture, né fra alleati né con il governo. Ma lo sforzo di fantasia per trovare la quadra stavolta dovrà essere davvero molto creativo.
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