- Il 14 giugno entra nel vivo, con la requisitoria della procura generale, il processo d’appello dell’ex Nar Gilberto Cavallini, che sarà assistito da un avvocato d’ufficio
- La strategia dei suoi difensori si è scontrata con diverse difficoltà: sono state respinte le richieste di nuove acquisizioni, compreso l’approfondimento sui resti attribuiti a Maria Fresu
- Via libera invece alle carte di Giovannone, ma a produrle è stata la procura generale: «Dimostrano che la pista palestinese non esiste»
Dopo appena quattro udienze, mercoledì 14 giugno si entra nel vivo, con l’avvio della requisitoria della procura generale. Ma dallo scorso 10 maggio, quando è iniziato, il processo in Corte d’assise d’appello a Bologna per la strage alla stazione del 2 agosto 1980 (85 morti e oltre 200 feriti, la più grave della storia repubblicana), ha già riservato diversi colpi di scena.
Per la difesa dell’ex Nar Gilberto Cavallini, condannato all’ergastolo in primo grado nel gennaio 2020, il bilancio di questo primo mese di dibattimento è però del tutto deficitario: nulla ha infatti portato a casa in termini di nuovi elementi da sottoporre alla Corte, benché gli avvocati Gabriele Bordoni e Alessandro Pellegrini le abbiano provate tutte. Tanto che giovedì scorso hanno a sorpresa rimesso il mandato. Ma andiamo con ordine.
Il tentativo fallito
All’apertura del processo, la difesa Cavallini aveva estratto il classico asso nella manica: la richiesta di annullare l’intero procedimento di primo grado, perché più giudici popolari avevano superato l’età di 65 anni nel corso del dibattimento. La mossa poggiava su due recenti pronunciamenti di Corti d’assise d’appello siciliane (Messina e Palermo), che avevano accolto analoga richiesta delle difese in processi per un delitto di mafia e un femminicidio.
La questione era anche approdata lo scorso febbraio in parlamento, in un question time. E per il ministro della Giustizia Carlo Nordio le cose stavano effettivamente così: quei processi andavano annullati perché punto la giurisprudenza della Cassazione era costante. Sembrava dunque che un cavillo potesse mandare a monte un dibattimento durato quasi due anni e una sentenza motivata attraverso un documento di oltre 2mila pagine.
Ma Nordio si era sbagliato: mai infatti in 72 anni (la legge in questione risale al 1951) la questione è stata posta in questi termini alla Cassazione, che mai sul punto si è pronunciata. E ci sarebbe da chiedersi di che razza di consiglieri si circondi il ministro.
Ad azzerare la questione ci ha pensato appunto la suprema corte, appena due giorni dopo l’udienza di Bologna (dove nel frattempo si era giocoforza deciso di attenderne l’imminente pronunciamento): intervenendo proprio su un ricorso della procura generale di Palermo, ha infatti sentenziato che il requisito anagrafico previsto dalla legge per i giudici non togati «è richiesto al momento dell’iscrizione nell’albo dei giudici popolari, dell’inserimento della lista e, da ultimo, della nomina per la sessione. Il giudice popolare così nominato resta legittimamente in carica per l’intera sessione». Cioè fino al termine del dibattimento, anche se nel frattempo si compiono i fatidici 65 anni.
Superato questo primo ostacolo, il processo è quindi ripreso il 18 maggio, con un’udienza interamente dedicata alla relazione del giudice a latere circa la sentenza d’assise. E ci sono volute quasi sei ore, perché il processo di primo grado aveva ripercorso anche i procedimenti precedenti: quelli cioè che hanno portato alle condanne all’ergastolo degli altri ex Nar Francesca Mambro e Valerio Fioravanti (con sentenza finale della Cassazione a sezioni unite nel 2005) e a trent’anni per Luigi Ciavardini, di Terza Posizione ma ai Nar organico, che all’epoca della strage aveva appena 17 anni. Nel suo caso la condanna è passata in giudicato nel 2007. I tre, alla vigilia della strage, erano ospiti in Veneto di Cavallini: di qui, per quest’ultimo, il reato di concorso.
Si tratta di sentenze da sempre avversate da un composito fronte innocentista, che ha sposato la reiterata professione d’innocenza dei neofascisti, indicando una ricostruzione del tutto alternativa: la cosiddetta pista palestinese. Di cui però, dopo averla indagata per un decennio anche attraverso rogatorie internazionali e acquisizioni di documenti presso servizi stranieri d’intelligence, la procura ha chiesto nel 2014 l’archiviazione al gip, che l’anno dopo la dispose, ritenendo ampiamente inconsistenti gli elementi a suo tempo spuntati nell’ambito dei lavori della commissione parlamentare Mitrokhin.
Piste alternative e dna
Nonostante un corpus di sentenze del genere, nei motivi d’ appello la difesa Cavallini non ha cambiato strategia. E dunque da un lato ha riproposto massicciamente elementi contro le sentenze irrevocabili che hanno riguardato Mambro, Fioravanti e Ciavardini, dall’altro tutti gli ingredienti della pista palestinese: a partire dalla richiesta di portare in aula a deporre il famigerato “Carlos lo sciacallo”, il terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sanchez (da tempo ergastolano in Francia) legato a filo doppio all’estremismo palestinese. Ad ogni argomentazione la procura generale si è opposta, forte proprio di anni di acquisizioni giudiziarie. E il 31 maggio la Corte tutto ha respinto.
Niente da fare anche per la richiesta relativa ai resti di Maria Fresu, vittima della strage, dopo che nel corso dell’assise erano stati riesumati e il test del dna aveva provato che non appartenevano alla donna. La tesi della difesa, anche questa nota da anni, è che quel lembo facciale sia di una ottantaseiesima vittima: la stessa terrorista che stava trasportando la valigia con l’esplosivo.
A corollario, l’ardita ipotesi di un doppio trafugamento di corpi (o meglio: dei loro resti “depezzati”) da parte di non meglio indicati uomini dei servizi segreti, per giunta durante le operazioni di soccorso: quello della Fresu e quello della supposta terrorista. Di qui la richiesta di comparare quel dna con quelli di familiari delle altre sette vittime di sesso femminile i cui resti riportavano ferite al volto in qualche modo compatibili con quel lembo. Scopo della difesa sarebbe stato avere un esito negativo, per poter sostenere appunto la presenza di una ulteriore vittima.
In aula, anche da parte dell’avvocatura dello stato, si è invece argomentato che ulteriori esami riguardanti quei resti non porterebbero a nulla, perché nulla è la certezza circa la catena di conservazione a suo tempo seguita nelle fasi di identificazione dei cadaveri (o di ciò che ne restava). Lo dimostra il fatto che dalla bara della Fresu sono spuntati resti con tre diversi Dna e che per giunta, rispetto a quanto vi si sarebbe dovuto trovare, mancavano due denti e un frammento di femore.
I lacerti del corpo della povera Maria Fresu potrebbero insomma essere finiti ovunque, anche in altre bare, e viceversa, oppure nella discarica di Prati di Caprara, dove vennero portati i cumuli di macerie (tra i quali anche molti anni dopo spuntarono ossa e altro materiale organico). Le carenze nella custodia dei resti sono peraltro già di per sé elemento che inficia ogni ammissibilità di prova. E anche questo era un punto già emerso in assise.
Del tutto irragionevole invece, secondo la Procura generale (e la stessa sentenza di primo grado), la tesi della doppia sparizione di cadavere di cui si è detto. E la Corte, escludendo dalle rinnovazioni in appello la questione Fresu, ha chiuso la questione.
Le carte
Resta da dire delle carte di Stefano Giovannone, cioè i documenti che nei mesi precedenti e successivi alla strage l’allora capocentro del Sismi a Beirut inviava a Roma. In quei cablo, sostiene da tempo il fronte innocentista, si nasconderebbe la verità sulla strage di Bologna, e pure su Ustica. Quei documenti diversi mesi fa sono stati finalmente desecretati e versati all’Archivio centrale dello stato, per la libera consultazione da parte dei ricercatori.
E proprio su questo giornale, ancora il 10 marzo, assieme a Paolo Persichetti chi scrive ha dimostrato il contrario: quei documenti anzi indicano come la tensione tra ambienti palestinesi e l’Italia, dopo l’arresto di tre autonomi e del palestinese Abu Saleh fermati a Ortona durante un trasporto di lanciamissili, era stata sostanzialmente risolta, rinviando il processo d’appello come richiesto da parte palestinese.
La procura generale ha demolito qualsiasi diversa ricostruzione, svelando anzi come l’allora senatore Carlo Giovanardi – tra i principali propugnatori di una responsabilità palestinese – avesse del tutto frainteso un documento, che conteneva sì una minaccia, ma non era del giugno 1980, bensì del giugno 1981: quando le stragi di Ustica e Bologna erano da tempo avvenute. Il carteggio è stato comunque acquisito: lo chiedeva la difesa Cavallini, ma a produrlo è stata la stessa procura generale. Acquisita anche la recente sentenza Bellini: un altro colpo alla difesa, che invece si era opposta.
L’epilogo
Da mercoledì, come detto, Cavallini sarà assistito da un avvocato d’ufficio. Bordoni e Pellegrini hanno motivato la remissione del mandato parlando di un «muro» di fronte alla loro richiesta di ampliare il quadro istruttorio: «E non potevamo rimanere in una funzione meramente formale».
Duplice il loro ultimo atto: la richiesta di poter almeno accedere, attraverso un proprio consulente, ai campioni di dna dei resti attribuiti alla Fresu, per avere elementi sulla sua origine; inoltre, una lettera alla presidenza del Consiglio affinché faccia chiarezza su un presunto “vuoto” nelle carte di Giovannone nel periodo tra luglio e settembre del 1980.
Intanto Cavallini, dal carcere di Terni, ha inviato alla Corte una propria memoria di cinquanta pagine in cui rilancia la pista palestinese e ribadisce l’innocenza sua e dei Nar, utilizzati come «capro espiatorio».
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