La malafede e la mancanza di basi giuridiche del provvedimento di Piantedosi su Bari sono chiare. L’aneddoto raccontato dal governatore della Puglia alla manifestazione per Decaro, sulla visita a casa della sorella del boss, lascia però l’amaro in bocca
La malafede e la mancanza di basi giuridiche del provvedimento del ministro Piantedosi indirizzato al comune di Bari è evidente ed è stata spiegata da molti. Le intenzioni fiancheggiatrici di molti degli atti dell’attuale ministro dell’interno sono un fatto abituale e raccontato da molti cronisti (a partire dal provvedimento sui rave e fino ai fatti di Cutro).
I meriti di Antonio Decaro e l’irreprensibilità della sua condotta da sindaco sono altrettanto evidenti, fino a prova contraria. Come chiarissime sono le circostanze che hanno portato a concedere la scorta a Decaro, che non sembrano affatto mutate.
Eppure, l’aneddoto raccontato da Emiliano alla manifestazione lascia l’amaro in bocca e incrina inevitabilmente la limpidezza del quadro. Non cambia le carte in tavola, non rende meno arbitrario e indifendibile l’atto di Piantedosi, ma introduce un’opacità: più ideologica, più di costume, che giuridica.
L’aneddoto contestato
Per Emiliano, l’origine dell’«antimafia di Antonio Decaro», allora assessore alla mobilità e al traffico, sta nella reazione a una presunta minaccia ricevuta: una pistola puntata alla schiena, in piazza, in pieno giorno.
La reazione consistette nell’andare a casa della sorella di Antonio Capriati, definito da Emiliano «il boss del quartiere», e dirle: «Quest’ingenere è assessore mio», spiegare le ragioni a favore dell’istituzione di una Ztl a Bari vecchia, e concludere: «Se ha bisogno di bere, se ha bisogno di assistenza, te lo affido».
La mafia è molte cose, ma come mentalità è soprattutto l’idea che il carisma personale e la rete di solidarietà interna a gruppi, clan e famiglie siano l’essenza della vita sociale. La mafia è prmoderna: è un’etica talvolta eroica, sempre tribale. Se la si volesse nobilitare, si direbbe: un residuo di etica omerica, quella degli eroi e della tribù, soppiantata, per fortuna, dalla democrazia ateniese.
L’essenza dello stato democratico moderno è l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge, l’impersonalità delle regole e dei diritti di tutti, della protezione che spetta a ognuno, non solo a chi conosce qualcuno.
Nello stato democratico, un pubblico funzionario non abbisogna, per svolgere le proprie funzioni, di essere affidato al benvolere di qualcuno. Non ha bisogno, per rifocillarsi, per avere assistenza, di essere introdotto dal carisma personale di un sindaco che fa appello al carisma personale di un capo-mafia. E nello stato democratico chi viene minacciato viene difeso, e chiede di esserlo, con i mezzi tipici dello stato: le forze di polizia e la magistratura.
Tutto questo è meno romantico e fascinoso della forza del carisma buono del sindaco ex-magistrato che si oppone vincente al carisma cattivo del mafioso. Inoltre, forse affidarsi allo stato quando lo stato è debole è pericoloso. E sicuramente talvolta sono necessari compromessi. Per varare una legislazione antimafia bisogna avere sèguito in parlamento e per averlo servono i voti.
Ma questi compromessi devono rimanere estremi rimedi. Non si possono indicare come la via maestra della lotta alla mafia. Perché compromessi del genere, quando non momentanei, diventano contiguità di mentalità, ammiccamento.
Né vale a emendare questo cedimento alla mentalità premoderna della mafia l’accenno di Emiliano a una certa comprensione, a un tentativo di incidere sulle basi sociali del fenomeno mafioso – cioè il tentativo, come dice Emiliano, di «non criminalizzare» il desiderio di parenti e sodali dei mafiosi di «cambiare vita».
Carisma da non riconoscere
Una lettura sociologica della mafia, che ne rintracci le cause sociali e culturali profonde, che proponga strategie di rieducazione e reinserimento nella società civile democratica è corretta ed è un dovere.
Il populismo penale non vale neanche per i mafiosi. Anzi, certe misure apparentemente draconiane e poi isolate creano solo martiri, come nel caso di molti mafiosi morti in carcere senza che questa mancanza di pietà abbia fruttato informazioni preziose o reali vittorie.
Ma, di nuovo, tutto questo non passa per il riconoscimento del carisma mafioso, per l’affidamento a esso. Lo stato non si reca, in quanto stato, nelle case private. Né dei cittadini qualunque, né di cittadini privilegiati. Lo stato parla in pubblico, tramite le sue leggi e tramite i valori di dignità e onore incarnati dai suoi funzionari. Questo è il punto di partenza necessario della lotta alla mentalità mafiosa, senza la quale non c’è vera lotta alla mafia.
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