Genovesi, capo della Fillea Cgil, chiarisce che il testo ancora non esiste, anche se «non si esclude». Tra i dem aumentano i contrari e i perplessi, anche vicini a Schlein: «Puntiamo al salario minimo»
«La cosa sta in questi termini: a luglio, all’assemblea generale della Cgil, abbiamo votato un percorso di iniziative che portino alla manifestazione del 7 ottobre e, se non vi saranno risposte alle nostre rivendicazioni su salari, pensioni, precarietà, allo sciopero generale. In questo percorso non si esclude il ricorso a molte iniziative, compresa anche la possibile raccolta delle firme per un referendum abrogativo di alcune norme del Jobs act. La notizia finisce qui».
A chiarire bene la questione che agita il Pd è Alessandro Genovesi, da sette anni segretario della Fillea, la tostissima federazione degli edili. Quanto alla Cgil, «è chiaro che poi nei prossimi mesi dovremmo fare tutte le normali riflessioni e riunioni dei gruppi dirigenti su eventuali quesiti, merito tecnico, alleanze possibili eccetera. La notizia semmai è che qualcuno si stupisca che la Cgil provi a contrastare la precarietà, con tutti gli strumenti possibili».
Traduzione non autorizzata: il referendum sul Jobs act ventilato dal leader Cgil Maurizio Landini, al quale il 30 agosto Elly Schlein si è detta disponibile lasciando di stucco tutto il suo partito, amici e avversari, per ora è immaginario. Peraltro perché quel voto possa essere celebrato nel 2024 le firme – mezzo milione – dovrebbero essere raccolte entro il 30 settembre. Impossibile. Se ne riparla, nel caso, per il 2025.
Insomma, il Pd è entrato in uno stato di fibrillazione per un referendum che non c’è. Un inaspettato regalo alla destra. E a Matteo Renzi, padre del Jobs act, che ieri durante il lancio della sua nuova lista europea ci ha ricamato su: «Credo ci sia un livello minimo rispetto per sé stessi: questa vicenda del Jobs act è il simbolo. Questa legge, voluta da noi, il Pd la mette talmente in discussione da volere fare un referendum contro».
Landini chiama Schlein
Sulla vicenda ci sono due retroscena non confermati dagli interessati. Il primo: prima di lanciare l’eventualità del referendum, il segretario Cgil avrebbe chiamato Schlein per anticiparglielo. Il secondo: Landini non ha voluto ufficialmente aderire alla raccolta delle firme sul salario minimo delle opposizioni, per evitare l’accusa di essere la “cinghia di trasmissione” della sinistra. Quindi ha voluto lanciare un’iniziativa sindacale, una sorta di “più uno” a sinistra, che mobiliti la base Cgil.
Va detto che nel Pd questo «simbolo» della stagione renziana ormai è considerato rottamabile, nei fatti. Alcune parti della legge sono state smontate dalla Consulta. Abolire l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ovvero il licenziamento senza giusta causa, è ormai considerato un errore difficilmente rimediabile; quella legge non ha neanche “disboscato” le forme contrattuali, cosa promessa da Renzi.
Già Enrico Letta predicava il «superamento» della legge, formula generica adottabile e infatti adottata da tutto il partito. Sta agli atti che nel dicembre del 2022 l’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando ha presentato un emendamento alla finanziaria che cancellava una parte delle norme del Jobs act proprio per sanare gli aspetti critici rilevati dalla Consulta. Fu firmato da tutto il Pd della Camera (dalla A di Amendola alla zeta di Zingaretti). Ma non passò.
Guerra alla precarietà
Però un referendum è un’altra cosa, tanto più che nel 2017 la Consulta ha già bocciato un testo referendario. «Siamo di fronte a un conflitto simbolico privo di oggetti concreti», secondo il costituzionalista Stefano Ceccanti. «Un testo non c’è. In più la sentenza con cui la Corte ha bocciato il quesito del 2017 non lascia molti spazi: serve un testo abrogativo e omogeneo, e non è ammessa la cosiddetta reviviscenza. Insomma un’abrogazione non resuscita la normativa precedente».
Così dopo qualche giorno di silenzio malumori sottotraccia, dal Pd ora si fanno forza le voci scettiche. Anche di parte Schlein. Chiara Gribaudo, vicepresidente del Pd, a In Onda, su La7: «Resterei concentrata sui fatti, il Jobs act ha sette anni ed è stato superato dal mercato del lavoro. La segretaria ha giustamente detto qual è la sua linea, lei in quel momento non era nel Pd. Quando ci sarà il quesito potremo rifare il dibattito».
Il “riformista” Alessandro Alfieri, numero due della corrente di Stefano Bonaccini (anche lui perplesso sul referendum): «Stiamo facendo la battaglia contro il precariato, per il salario minimo, per la sicurezza sui luoghi di lavoro, non vedo perché impegnarci a guardare indietro: parliamo di una riforma votata da tutta la comunità del Pd, che ha impegnato da Bersani a Franceschini, da Speranza a Orlando e Braga».
Maria Cecilia Guerra, attuale responsabile Lavoro Pd: «Quando Letta in campagna elettorale parlava del superamento del Jobs act evocava la ferita che quel provvedimento ha aperto con riferimento alla disciplina dei licenziamenti, su cui peraltro è intervenuta anche, a più riprese, la Consulta. Poi il Jobs act è stato anche molto altro, con aspetti positivi, come l’estensione degli ammortizzatori sociali».
Ma in concreto «trovo curioso che ci si interroghi su una ipotesi di referendum solo ventilata, e non invece sui temi che Landini pone anche in vista del 7 ottobre: la precarietà del lavoro, i contratti scaduti, l’inflazione che si mangia il potere d’acquisto, il salario minimo legale, una legge sulla rappresentanza, un fisco più equo, una sanità pubblica accessibile a tutti, per citarne solo alcuni.
Su questi temi il Pd è pronto al confronto e, nel rispetto dell’autonomia dei diversi soggetti, a battaglie comuni». Per il Pd oggi la priorità è il salario minimo, «su cui abbiamo costruito una proposta con le altre opposizioni, sostenuta da centinaia di migliaia di firme, che stiamo ancora raccogliendo». Insomma, il referendum immaginario può attendere.
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