- L’elezione di Mario Draghi al Quirinale realizza nel modo più compiuto l’interesse del paese. Draghi è la persona più competente, autorevole e stimata in circolazione, nessuno fra i quirinabili ha una levatura nemmeno paragonabile alla sua.
- Il dramma è che l’interesse dei partiti è disallineato rispetto all’interesse del paese. Le forze politiche ragionano in termini di cabotaggio, consensi, sopravvivenza e rendite di posizione.
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Negli anni del populismo ci siamo ripetuti fino alla noia un’importante verità: la democrazia non è una conquista definitiva, ma va continuamente protetta e consolidata. L’elezione del capo dello stato è un’ottima occasione per dimostrare che abbiamo imparato la lezione, prendendo una decisione nell’interesse del paese.
L’elezione di Mario Draghi al Quirinale realizza nel modo più compiuto l’interesse del paese. La cosa è talmente evidente che se n’è accorto perfino Bill Emmott. Draghi è la persona più competente, autorevole e stimata in circolazione, nessuno fra i quirinabili ha una levatura nemmeno paragonabile alla sua.
Il profilo internazionale e la stima bipartisan di cui gode lo rendono il candidato ideale per fare il capo dello stato, suprema figura di garanzia istituzionale.
Se il tragico inghippo globale della pandemia, unito alle debolezze ataviche della politica italiana, non avesse costretto Sergio Mattarella ad affidare a Draghi il governo non saremmo qui a discutere su chi sia la persona più adatta per salire al Colle.
I partiti hanno altri interessi
Il dramma è che l’interesse dei partiti è disallineato rispetto all’interesse del paese. Le forze politiche ragionano in termini di cabotaggio, sopravvivenza, rendite di posizione, gruppi parlamentari riottosi, gestione del consenso attuale e terrore di perderne in futuro, tutte cose che legittimamente fanno parte della dialettica politica, ma non c’entrano nulla con l’interesse del paese nella circostanza dell’elezione del capo dello stato. Bella scoperta, dice quello, ma ogni tanto è bene ricordarsi l’ovvio.
Praticamente tutti i partiti vorrebbero congelare lo status quo o comunque mantenere Draghi a palazzo Chigi. Anche Giorgia Meloni, la leader del partito che più avrebbe da guadagnare dalla caduta del governo, parla con sempre meno convinzione di elezioni anticipate.
Il premier da tempo dice che trova offensivo che lo si accosti al Quirinale, ma non è ancora più offensivo che i partiti pubblicamente dicano di volerlo ancora a palazzo Chigi per servire interessi di bottega, mascherandoli con discorsi nobili sulla responsabilità in tempi d’emergenza?
La realtà è che il piano vaccinale è andato bene e prosegue senza intoppi particolari, le riforme fondamentali sono impostate, la legge di Bilancio è in dirittura d’arrivo, il Pnrr è depositato e ora si tratta di vigilare attentamente sulla sua esecuzione (il Quirinale è un ottimo punto di osservazione per farlo). Il mandato mattarelliano è sostanzialmente assolto.
La paura semipresidenzialista
Un’obiezione ricorrente è che il passaggio di Draghi da palazzo Chigi al Quirinale possa aprire la strada al semipresidenzialismo di fatto, anomalia istituzionale e forzatura costituzionale che i più sensibili alle norme democratiche presentano come una pericolosa eresia.
L’obiezione è capziosa, perché agita la paura di una potenziale stortura futura senza curarsi minimamente dell’anomalia presente. Si concentra su una pagliuzza che non c’è mentre ignora la trave già ampiamente conficcata nella politica italiana.
La trave è questa: il governo di unità nazionale è in realtà un’ammucchiata emergenziale tenuta insieme da ragioni di convenienza; i maggiori partiti non controllano nemmeno i propri parlamentari, che a loro volta sono stati eletti sulla base di programmi elettorali che non esistono più. Il gruppo misto, decisivo per l’elezione al Quirinale, sembra un fritto misto all’italiana, roba da cenone della vigilia.
Le abnormi distorsioni già in atto fanno sembrare un’eventuale curvatura semipresidenziale un effetto collaterale lieve, come quello del vaccino, e dunque appellarsi a questo argomento è almeno pretestuoso.
La democrazia va curata
C’è poi una questione democratica di fondo da dirimere. Negli anni del populismo ci siamo ripetuti fino alla noia un’importante verità: la democrazia non è una conquista definitiva, ma va continuamente protetta, consolidata e rinnovata per evitare degenerazioni o pericolosi cali di tensione.
L’elezione del capo dello stato è un’ottima occasione per dimostrare che abbiamo imparato la lezione. In questo caso, l’opera di manutenzione democratica consiste esattamente nel prendere una decisione nell’interesse del paese, mettendo in secondo piano gli interessi biechi dei partiti e costringendo la politica a tornare al proprio ruolo, evitando che possa nascondersi ancora dietro al paravento della necessità di un governo emergenziale ad libitum.
Un riflusso di cinismo kissingeriano suggerisce infine un pensiero indicibile: in questa partita i migliori alleati dei partiti sono i morti. Quelli causati dalla pandemia, s’intende: all’aumentare del loro numero aumentano anche le possibilità di un prolungamento del mandato conferito a Draghi. Chi lo vuole ancora al suo posto potrà passare le vacanze di Natale a fare segretamente il tifo per la variante Omicron.
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