Il presidente Fontana: «Un errore bloccare solo gli amministratori locali». La Lega sottolinea i contrasti in Cdm Salvini scavalcato dai suoi dirigenti
Se serviva un ulteriore segnale esplicito, è arrivato: Giorgia Meloni ha confermato che il consiglio dei ministri impugnerà davanti alla Corte costituzionale la legge regionale della Campania sul terzo mandato, voluta da Vincenzo De Luca.
Così la posizione del governo sul limite dei due mandati per i presidenti di regione è diventata inequivocabile e apre una questione rilevante nel governo e dentro la Lega. Fonti leghiste fanno sapere che «nel cdm non è previsto il voto» ma è «nota la differenza di opinioni che su questo tema c’è tra le forze di maggioranza» e infatti il il ministro Roberto Calderoli ha sottolineato durante il consiglio di «essere favorevole, come la Lega ha sempre ribadito, a una modifica della legge nazionale».
Insomma, aperta divergenza ma alla fine la linea è quella di Meloni. Con un effetto: la ghigliottina decapita tutta la classe dirigente leghista alla guida del nord: il veneto Luca Zaia (che ha già fatto tre mandati); il friulano Massimiliano Fedriga; il lombardo Attilio Fontana e il trentino Maurizio Fugatti.
Al netto dei casi peculiari - i due presidenti di regione e provincia autonoma avrebbero potestà legislativa primaria in materia elettorale, anche se gli servirebbe l’appoggio di tutto il centrodestra in consiglio - tutti e quattro i governatori sono accomunati da un pensiero, che è stato espresso da ultimo da Fontana in una dura intervista a Repubblica: «Fuori luogo che si debbano porre limiti soltanto ad alcune categorie di politici, soprattutto a amministratori locali» e «un’anomalia quella del limite al termo mandato e un errore del governo non intervenire».
In realtà, come più volte sottolineato da Fratelli d’Italia, il vincolo dei due mandati riguarda gli incarichi elettivi diretti e serve a prevenire l’accentramento del potere, tanto che è stato inserito anche per il presidente del Consiglio nella riforma costituzionale del premierato.
A saltare agli occhi, però, è come i governatori uscenti abbiano ormai assunto in prima persona il ruolo di alfieri del terzo mandato anche nei confronti del governo, senza più passare per la voce del segretario Matteo Salvini, rimasto ai margini dello scontro e almeno fino ad ora poco capace di incidere sulle convinzioni di Meloni in merito. Del resto il pensiero della premier ed è intriso di ragioni non solo giuridiche ma soprattutto strategiche, che prescindono dalla Lega.
La prima è stata espressa in modo chiaro dal forzista Flavio Tosi (ex leghista e grande nemico di Zaia in Veneto): concedere il terzo mandato ai governatori leghisti del nord significherebbe anche dare un enorme vantaggio competitivo agli uscenti di centrosinistra in tre regioni considerate contendibili dal centrodestra come Campania, Puglia e Toscana.
La seconda ragione ormai nemmeno più sottintesa è che Fratelli d’Italia ha la legittima ambizione di guidare una grande regione del nord e il Veneto – che è diventato forziere elettorale anche per Meloni con il 30 per cento alle politiche - è la più ambita dopo quindici anni a guida leghista, dunque concedere un altro quinquennio a Zaia sarebbe fuori discussione.
Il nodo del Veneto
Anche in conferenza stampa Meloni non si è nascosta: «Penso che quella di Fratelli d'Italia sia un'opzione che deve essere tenuta in considerazione» per la candidatura del centrodestra alla presidenza della Regione Veneto, anche se «di queste vicende si deve discutere con grande serenità con gli alleati».
E i nomi non mancano: ci sono la regina delle preferenze alle europee e veterana del consiglio regionale Elena Donazzan; il fedelissimo di Francesco Lollobrigida Luca De Carlo e quello ad oggi dato per più papabile, il senatore Raffaele Speranzon.
Eppure la pratica veneta va maneggiata con cura, perché qui la Lega è pronta a giocarsi l’arma di fine del mondo: se il candidato di centrodestra non sarà leghista, «siamo pronti a correre da soli» con un agglomerato di liste civiche per cui sarebbero già in corso abboccamenti, è il mantra che si ripete nella Liga Veneta, rispolverando la sua vena fieramente indipendentista anche rispetto agli alleati. Certamente anche FdI sa di non poter prescindere dai desiderata di Zaia, che alle scorse regionali ha raccolto con la sua lista personale il 44 per cento dei consensi e dunque con lui bisognerà parlare per un avvicendamento senza strappi.
Molte incognite sono ancora aperte e Zaia, da politico attento, non sta scoprendo le sue carte: per lui ci sarebbe la possibilità di una candidatura a sindaco di Venezia, ma chi lo conosce bene sa che non considera ancora del tutto tramontata anche la ricandidatura, nonostante tutti i segnali vadano in direzione contraria. «In 10 mesi può succedere di tutto», è il suo mantra, in attesa di vedere gli esiti dell’impugnazione della legge campana.
L’attesa per la Consulta
La legge regionale della Campania, infatti, prevede che il numero di mandati si computino dal momento del recepimento della legge nazionale che ha imposto il vincolo e non semplicemente contando quante volte l’eletto ha ricoperto l’incarico di presidente. In questo modo, a De Luca sarebbe assicurato un ulteriore possibile mandato.
Nell’impugnazione, palazzo Chigi sosterrà invece che le leggi nazionali sono di immediato recepimento e che la norma regionale viola l’articolo 122 della Costituzione. Toccherà alla Consulta decidere chi ha ragione e proprio sui cavilli giuridici che questa sentenza potrà sollevare spera Zaia.
Intanto, però, De Luca non intende rimanere con le mani in mano. Dopo le dichiarazioni della premier e i retroscena che lo darebbero come dimissionario per puntare subito ad essere rieletto in vigore della legge regionale, il governatore campano ha convocato per oggi una conferenza stampa che si preannuncia pirotecnica.
L’unico a rimanere fuori dalla contesa è Matteo Salvini, che ha sempre tiepidamente sostenuto il terzo mandato per i suoi governatori ma più per dovere che per convinzione. Nelle ultime settimane dopo l’assoluzione nel processo Open arms il suo pensiero fisso è stato puntato su Roma e più precisamente sul Viminale, ma anche su questo la premier ha spento gli appetiti: «Ha ragione a dire che senza il processo avrebbe chiesto e ottenuto il Viminale ma oggi abbiamo un ottimo ministro dell'Interno, Piantedosi».
Ora il rischio, però, è che di qui ai prossimi tre anni vengano messe in discussione tutte le regioni del nord a guida leghista, anche perché i quattro uscenti non hanno cresciuto eredi.
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