Anche quando, alle origini, il M5s praticava moduli provocatori e linguaggi urticanti (il vaffa) fui tra i pochi nel Pd a suggerire, inascoltato, di intrecciare un dialogo. Sia perché esso manifestamente interpretava un sentimento/risentimento largamente diffuso che era meglio parlamentarizzare affinché non prendesse una piega ancor più inquietante e persino violenta scaricandola nelle piazze (vedi i gilet gialli francesi favoriti da un sistema istituzionale che mortifica la rappresentanza parlamentare).
Sia perché il Pd versione renziana, ovvero un partito schiacciato sull’establishment, si stava facendo del male e, paradossalmente, gonfiava le vele del M5s assumendolo ad avversario sistemico nel mentre nel paese spirava vigoroso quel vento antipolitico. Il risultato fu, nel voto del 2018, 32 per cento al M5s (un elettore su tre) e 18 per cento al Pd.
Fu un errore e un boomerang ostracizzare quel Movimento.
Grillo non è la soluzione
Oggi, dopo la sconfitta alle europee, esso è alle prese con un ennesimo passaggio critico. Forse risolutivo. Ne può sortire solo se avrà il coraggio di non fare sconti a sé stesso tracciando un onesto bilancio della sua parabola.
Comincio dal vertice: Grillo è stato la geniale levatrice del Movimento, il suo brillante megafono, ma non può essere la soluzione per la stagione del suo approdo alla maturità. Non è più il tempo delle battute da decrittare. Sempre a cavallo tra il teatro e la politica. Un registro francamente stonato e fastidioso a fronte della serietà della situazione.
Va detto: Conte, al netto di una certa dose di camaleontismo/opportunismo, ha dato un contributo alla positiva evoluzione del M5s. Al governo e in Ue. Penso al decisivo contributo al varo della maggioranza Ursula e al negoziato sul Pnnr. Una evoluzione ancorché incompiuta su due versanti: quello del posizionamento lungo l’asse destra-sinistra (nonostante il tatticismo lessicale che gli fa optare per l’aggettivo “progressista”); quello della forma-partito ove il Movimento è passato da una condizione magmatica a partito-parlamentare personale. Meglio a non-partito personale.
Cioè ancora due volte deficitario: di un radicamento territoriale e sociale e di un collettivo al vertice che elabori (discutendolo) l’indirizzo politico attraverso un regolato, trasparente, pubblico confronto nel quale – inesorabilmente e utilmente – prenderebbe corpo un sano pluralismo.
L’opposto della compiaciuta retorica del movimento privo di uno statuto. Sì, pur in forme nuove quanto si vuole, qualcosa che somigli a un partito. Dopo quasi venti anni e, in una temperie tanto diversa, è ragionevole auspicare che il M5s acceda all’idea che il partito è strumento essenziale alla democrazia. Anche in questo si mostra fedeltà alla Costituzione e al suo articolo 49.
Il mito delle origini
Non è interesse suo, della democrazia italiana, di un’alternativa alla destra illiberale che ci governa cedere alla tentazione del richiamo della foresta – anacronistico e infantile – del mito delle origini.
Non solo la storia, ma anche la politica non può essere la nostalgica riproposizione del sempre uguale. Sarebbe una via di fuga verso un passato che non può tornare. Sul piano ideale e programmatico ciò non comporta una ritrattazione, solo una rielaborazione e un aggiornamento compiutamente politici: la genetica sensibilità per la democrazia partecipativa (specie giovanile con i suoi nuovi linguaggi e strumenti), per la questione sociale, per la legalità, per l’ambiente e per la pace, opportunamente elaborate politicamente, rappresentano semmai una preziosa risorsa per il campo progressista da costruire con altri, il Pd in primis, in vista di un’alternativa tutt’altro che impossibile e comunque necessaria per battere le destre che ci governano.
Se non erro, era la prospettiva accarezzata da una delle poche teste pensanti che hanno accompagnato il Movimento: il sociologo Domenico De Masi.
È tempo di andare avanti e non indietro. Facendo uno scatto che muova dalla rivisitazione critica della propria avventura. Semmai emendando qualche ingenuità coltivata alle origini: l’idea che la politica possa prescindere da competenza ed esperienza (qui si innesta il feticismo del limite dei due mandati) e la teoria dal sapore qualunquistico che destra e sinistra pari sono. Si lasci ai terzisti nostrani tale teoria, il cui tasso di velleitarismo e opportunismo sta conducendo loro all’irrilevanza sino alla sparizione.
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