La discussione ospitata su queste pagine sul perché fatti corruttivi così gravi e ricorrenti non diano luogo a una nuova Tangentopoli è spiazzante. Non perché questa tesi non sia condivisibile, ma perché lo è troppo. Di fronte a quest’evidenza resta un senso profondo di amarezza, come se quella vergogna che agitava le piazze trent’anni fa avesse lasciato spazio a una rassegnazione senza rimedio. Vorrei contribuire alla discussione segnalando due aspetti particolari.

Il primo aspetto è che, mentre Tangentopoli ha rappresentato la crisi dei partiti, ciò cui assistiamo adesso è la crisi dei (iper) presidenti regionali. Il “decentramento irresponsabile”, lo ha definito su queste pagine Carlo Trigilia.

Non riguarda soltanto quei “governatori” che compiono sfacciate manovre corruttive. Dentro questa tendenza a sostituire l’architettura istituzionale centrata sul primato dei partiti vi è anche, per fare solo un esempio, il narcisismo di quei governatori che scrivono libri per farci sapere che loro lavorano non grazie, ma Nonostante il Pd, come s’intitola il nuovo libro del governatore De Luca. Giustamente si dirà: non si possono certo paragonare Toti e De Luca. Ovviamente no. Le differenze morali (e probabilmente penali) dei comportamenti sono sotto gli occhi di tutti.

Non è questo il punto. Il punto è che c’è una tendenza politica e culturale che è da entrambi condivisa e diffusa: quella di portare a termine il decentramento irresponsabile facendo agire il personalismo dei “governatori” contro la democrazia dei partiti. Quello stesso decentramento irresponsabile che De Luca giustamente avversa criticando l’autonomia differenziata, ma che egli stesso rappresenta nella sua ostentata convinzione che la politica debba seguire la strada della personalizzazione.

Rimedio sbagliato a Tangentopoli

Ora, il rapporto tra crisi dei partiti e decentramento irresponsabile è assai interessante anche in prospettiva genealogica. In un libro appena uscito che suggerisco a tutti di leggere (Francesco Pallante, Spezzare l’Italia. Le regioni come minaccia all’unità del Paese, Einaudi), si ricorda come le riforme che hanno assegnato l’abnorme potere attuale alle nostre regioni abbiano inizio nel 1995.

Data assai significativa, perché allude al fatto che il regionalismo non è altro che il modo in cui si è cercato di uscire dalla crisi strutturale aperta con Tangentopoli. Un rimedio peggiore del male, si direbbe. Per questo credo sia ora di riconoscere che gli ammiccamenti e la simpatia nei confronti del regionalismo – che in questi decenni hanno contagiato anche la sinistra – hanno contribuito all’inemendabile corruzione morale e politica che il super potere dei governatori sta manifestando. Non c’è alcuna critica credibile ai governatori che non sia soprattutto una critica all’assetto istituzionale che ha dato tanta centralità alle regioni. Non ci illudiamo che tutto si risolva sostituendo i politici disonesti con quelli onesti.

È stato il grande errore del M5s: non comprendere che la questione non è soggettiva, è oggettiva. Non riguarda le persone, riguarda le forme della politica. In questo senso la critica nei confronti dell’autonomia differenziata non può essere semplicemente tattica. Si tratta di operare un ripensamento radicale che riconosca nel regionalismo l’origine del fallimento delle strategie che sono state messe in campo dopo Tangentopoli. Se oggi non si dà un’altra Tangentopoli, è anche perché ci siamo illusi di poterne uscire sostituendo il potere dei partiti con il potere dei leader. E dunque non ne siamo mai davvero usciti.

Governanti senza partiti

Ma c’è un secondo aspetto che vorrei segnalare. Il decentramento irresponsabile ha avuto come conseguenza politica ciò che Dimitri D’Andrea definisce “singolarismo radicale” e che viene spiegato bene in un altro libro uscito da poco e che val la pena leggere per capire di più sul nostro tempo. Scrive Valentina Pazé (I non rappresentati. Esclusi, arrabbiati, disillusi, Edizioni Gruppo Abele): «Il singolarista radicale non sente bisogno di conferme, verifiche, confronto, e intrattiene verso le istituzioni un atteggiamento strumentale, accettando solo ciò che è funzionale alla soddisfazione dei propri bisogni e delle proprie preferenze».

Ecco, a me pare che l’attuale configurazione delle regioni non solo permetta, ma costringa i governatori a comportarsi da “singolaristi radicali”. Senza alcun argine, spazientiti dinanzi alla necessità di rendere conto delle proprie azioni in organismi collettivi, sottomessi ai grandi poteri economici.

Il punto curioso è che io sto utilizzando la categoria di “singolarismo radicale” per descrivere i governanti, mentre di solito viene usata per riferirsi ai governati. Nella crisi della rappresentanza, è probabilmente l’unica cosa rimasta che rende simili coloro che governano con coloro che sono governati. Ed è questa – a ben vedere – la vera grande differenza rispetto a Tangentopoli. Il mondo intorno alla politica non funzionava come la politica. C’era una società civile capace di costruire reazioni collettive.

Scrive ancora Pazé: «Ciò che viene a mancare, in questo modo, è la possibilità di riconoscersi in un soggetto collettivo». Governanti senza partiti e governati senza associazioni che intrattengano rapporti non strumentali con la politica. Governanti e governati uniti in questa desertificazione della politica.

Decentramento irresponsabile e singolarismo radicale sono due facce di uno stesso contagio che unisce l’irrefrenabile prepotenza di alcuni governatori e l’incapacità sempre più diffusa di agire in base a moventi e interessi collettivi. C’è un solo modo per arginare questa Tangentopoli che non finisce mai, ciò che è diventata l’Italia sotto i nostri occhi: ricominciare a insegnare e testimoniare la politica come passione comune, tornando alla democrazia dei partiti, nonostante i governatori.

© Riproduzione riservata