Nel paese nella provincia di Milano le persone che hanno avuto dei problemi nella vita possono trovare un rifugio sicuro. C’è chi ne approfitta per qualche ora e chi per anni. Ma per tutti c’è un porto sicuro
Questo articolo è un estratto della rivista digitale gratuita “Emersioni – Incontri, testimonianze e domande sul grave sfruttamento lavorativo” realizzata da una redazione di ragazze under 26, guidate dal giornalista Giuliano Battiston. Un’iniziativa promossa dalla Città Metropolitana di Milano insieme all’agenzia per la trasformazione culturale cheFare e l’organizzazione indipendente di ricerca e trasformazione sociale Codici ricerca e intervento, nell’ambito del progetto a supporto di persone vulnerabili Derive e Approdi.
A Gorgonzola, un paese di ventimila abitanti nella provincia di Milano, si trova una casa gialla su due piani con la scritta “kaire”, ovvero “rallègrati”, sopra la porta. La Casa di Andrea, come riporta il sito della Fondazione Somaschi, offre «servizi di accoglienza residenziale per uomini in difficoltà»: fragilità socio-economica, protezione sociale conseguente a sfruttamento, oppure grave marginalizzazione che porta alla condizione di senza fissa dimora.
Oltre alla Casa di Andrea, l’ente dispone di altri appartamenti sul territorio, servizi residenziali di semi autonomia, per un totale di 40/50 persone ospitate. Il fulcro di questa rete è Franco, il fondatore della Casa. Nata nel 1999, dal 2009 è entrata a far parte della Fondazione Somaschi.
Come ogni casa ha le sue abitudini, i suoi tempi. Di lunedì molti ospiti sono al lavoro, ma la casa non rimane mai vuota. C’è chi passa per una doccia, un piatto di pasta o della semplice, quanto essenziale, compagnia. Il legame tra tutte queste persone è proprio Franco.
«Tutte le volte che viaggio mi chiama per sapere se è andato tutto bene» racconta bonario Attilio, un signore sulla settantina, con uno smanicato da pescatore e le scarpe da ginnastica. È un uomo che ha viaggiato, racconta di Stoccolma e Capo Nord, ma torna sempre qui, alla Casa di Andrea.
Seduto accanto ad Attilio c’è un signore di buona stazza, che lavora come pizzaiolo. Mostra dal telefono le fotografie delle sue pizze e di quella a cui sta lavorando: «Fichi e crudo la prossima settimana». Sono alcuni degli ex ospiti della casa, persone legate a Franco che tornano come volontari ma che, come racconta Giada, un’educatrice, «hanno spesso più bisogno degli ospiti stessi». Quello di cui hanno bisogno non è più un tetto, un letto o un pasto caldo, ma persone disposte ad ascoltare, che sia del prossimo viaggio o della prossima pizza in programma.
Le cicatrici
A differenza delle case di prima accoglienza per donne vittime di tratta, la Casa di Andrea è più aperta all'esterno. Le donne infatti, dopo l’emersione dallo sfruttamento, possono avere grande sfiducia verso l’altro. Inoltre, chi le sfrutta riesce spesso a esercitare un controllo così capillare da richiedere la massima discrezione.
In maniera differente, il grave sfruttamento lavorativo maschile lascia grandi cicatrici, ma lo stigma è differente. Se raccontando la propria storia la donna rischia di essere inquadrata nello stereotipo della vittima e della debolezza, per un uomo è forse più facile raccontarsi: la vulnerabilità è recepita in modo differente. La Casa di Andrea è una delle poche strutture di assistenza pensate esclusivamente per gli uomini fragili, una parte poco visibile della popolazione.
L’accoglienza
Appena entrati, sulla sinistra c’è un piccolo ufficio. All’interno una scrivania con un computer, grossi faldoni di documenti, un divano e sui muri decine di foto di chi è passato, che raccontano un po’ del passato e un po’ del presente della casa. Sulla destra si trova la stanza che fa da cucina e salotto. Colpisce il volume della televisione estremamente alto.
È così per via di Livio, un signore che dopo aver perso la ditta e una separazione dolorosa ha trovato accoglienza nella Casa. Dalla sua poltrona, dietro le lenti spesse, con occhi forse non più così giovani ma decisamente vispi, osserva chiunque passi e tutto ciò che succede.
«Se vivi da solo è diverso. Qui sì, fai quello che vuoi, ma fino a un certo punto», dice riferendosi alla vita nella Casa. La convivenza è una sfida perché ognuno ha le sue fragilità e non sempre sono in armonia le une con le altre. Secondo gli operatori è proprio in virtù di queste fragilità che spesso gli ospiti hanno una sensibilità maggiore, in grado di riconoscere «meglio di noi», dice Alessandro, uno degli educatori, campanelli d’allarme non facilmente riconoscibili per chi non le ha vissute in prima persona.
Routine
Salendo al primo piano ci sono tre camere da letto non particolarmente ordinate: «Organizzare una routine è complicato», dice Giada, «dipende molto da chi c’è nella casa». Gli ospiti possono fermarsi poche ore o alcuni anni, per questo le dinamiche variano molto nel tempo.
Nonostante ciò, alcune abitudini sono ben salde. I pasti in particolare, cucinati a turno, sono il momento giornaliero di ritrovo, per scambiare due parole e parlare della giornata. Proprio questo è il cuore della casa, la quotidianità delle relazioni, che uniscono chi ha vissuto, chi vive e chi vivrà nella Casa di Andrea.
Le immagini qui presentate sono state scattate tra maggio e giugno 2023. Le fotografie rappresentano scene di vita quotidiana delle persone vittime di tratta e descrivono le attività degli enti che le affiancano e sostengono, parte del progetto Derive e Approdi. Illustrano le tappe di un lungo e faticoso cammino di consapevolezza e di emancipazione: dalla strada alle comunità di accoglienza, ai corsi di formazione, al lavoro e infine al recupero dell’indipendenza e della libertà di scegliere e di decidere come vivere. Il progetto è stato realizzato da Luca Meola, fotografo documentarista. Il suo lavoro di reportage, tra Italia e Brasile, è dedicato a corpi e territori marginali.
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