- «Un raro senso di dignità». Lo scrissero i magistrati nella sentenza con cui lo condannarono a un anno e quattro mesi per affermazioni false e reticenti a pubblico ufficiale. L’ammirazione verso chi nel momento decisivo erano rimasto un uomo.
- Con lo stessa dignità Enzo Carra se n’è andato alla vigilia del trentennale di quelle giornate che lo avevano segnato per sempre.
- Non poteva dimenticare il 19 febbraio 1993, il giorno del suo arresto a sorpresa ordinato dal pm Antonio Di Pietro a Milano. E il 4 marzo, quando fu processato per direttissima, davanti a telecamere e fotografi, con le catene ai polsi, come non è successo per Matteo Messina Denaro.
«Un raro senso di dignità». Lo scrissero i magistrati nella sentenza con cui lo condannarono a un anno e quattro mesi per affermazioni false e reticenti a pubblico ufficiale. L’ammirazione verso chi nel momento decisivo erano rimasto un uomo. Con lo stessa dignità Enzo Carra se n’è andato alla vigilia del trentennale di quelle giornate che lo avevano segnato per sempre. I capelli e la barba, già precocemente imbiancati, erano diventati candidi. Il volto si riempiva di improvvisi rossori. L’ironia, spietata soprattutto con sé stesso, si velava di malinconie arrivate a oscurarlo da chissà dove.
Non poteva dimenticare il 19 febbraio 1993, il giorno del suo arresto a sorpresa ordinato dal pm Antonio Di Pietro a Milano. E il 4 marzo, quando fu processato per direttissima, davanti a telecamere e fotografi, con le catene ai polsi, come non è successo per Matteo Messina Denaro.
Lo andavo a trovare nel suo ritiro in via dei Prefetti, pochi metri dalla Camera e dalla redazione del Tempo dove aveva lavorato, la scala stretta, la stanza monastica. Lunghe chiacchierate di politica tra un giornalista raffinato, sottile, e un amico più giovane.
Enzo conosceva tutti gli strumenti del mestiere: l’analisi, il retroscena, la battuta perfida e fulminante. Quando era passato dall’altra parte della barricata, come deputato della Margherita e dell’Ulivo, prima di concludere l’esperienza parlamentare tra le file del centro, aveva mantenuto il gusto delle notizie e delle interpretazioni.
Ai più intimi riservava con pudore le confidenze sul suo percorso intellettuale e spirituale, tra le certezze (poche) e i dubbi (tanti) del credente cristiano. Sapeva che la vita va oltre la politica, sono le letture, gli amici, la fede. Ma non separava mai la sua vicenda personale dalla politica. Quando scrisse di Tangentopoli non volle parlare di sé ma di Severino Citaristi, il tesoriere della Dc, pluricondannato e irreprensibile.
Il 19 febbraio 1993
Non fu facile convincerlo a parlarmi di quelle giornate del 1993 per un libro che stavo scrivendo. Era una giornata di giugno, cominciammo a lavorare in mattinata, nella piccola stanza entrava un sole caldo. Enzo cominciò a raccontare. Lo vidi rivivere quella giornata, istante per istante. Era stato il portavoce di Arnaldo Forlani, ma non era stato eletto in Senato, gli andreottiani lo avevano tenuto fuori, non aveva l’immunità parlamentare, per questo lo arrestarono.
«Arrivò il maresciallo in borghese, lo stesso che aveva arrestato Renato Curcio. “Scusi, perché lo fa?”, chiesi sconvolto. “Perché non si dicono le bugie”, mi rispose. Ma mi arrestavano perché avevo detto la verità!». L’urlo contro Di Pietro: «Quello che mi stai facendo te lo porterai dietro tutta la vita e andrai all’inferno!». Il processo con le telecamere e le manette: «Suonò il telefono alle sue spalle, gli dissero qualcosa, il maresciallo si voltò verso di me, cambiò espressione, si era rabbuiato. Gli avevano comunicato che doveva ammanettarmi. In quel momento realizzo. Ero troppo poco, io, per poter ambire agli schiavettoni. Ero l’interprete di una rappresentazione. Mi stavano per fare il processo di Pasolini. Io non ero Enzo Carra: io ero piazza del Gesù, la Democrazia cristiana, il partito-stato. Questo pensiero, per paradosso, mi ha sollevato».
L’arrivo nell’aula: «Siamo saliti a piedi, appena aperta una porta si scatena l’ira di Dio di fotografi e telecamere, sento qualcuno che mi sorride e mi saluta. A quel punto, lo giuro, non me n’è fregato più niente. Avevano sbagliato loro, adesso dovevano portarmi fin dentro la gabbia. Vedo Di Pietro alzarsi e venire verso di me. “Dottor Carra, non è questo il suo posto, venga con me”, mi dice. Mi accompagna in prima fila e mi bisbiglia: “Buona fortuna”».
«Tangentopoli è stata una grande occasione mancata per cambiare regole e comportamenti. Si sono contate le vittime, i morti e poi, come se niente fosse, tutto è ripreso come prima. E chi aveva osannato i giudici si è messo ad attaccarli, perché non servivano più. Invece di cambiar sistema, si è cambiato discorso», concluse Carra, una lezione valida ancora oggi. «Mani Pulite mi ha cambiato la vita. La sofferenza di quel periodo mi ha fatto capire cose che non avevo mai compreso. È stata una depressione lunghissima. L’unico ringraziamento lo devo a chi mi è stato sempre vicino con affetto sterminato e costante, il mio amico Francesco Cossiga».
Quando finimmo erano passate molte ore. Il sole era calato, la stanza si imbrunita, né io né lui ci eravamo fermati per accendere la luce. Nella penombra Enzo Carra continuava a parlare e mi accorsi che era fisicamente con me ma io non c’ero più, era altrove, con sé stesso, in quel punto profondo che a volte chiamiamo coscienza.
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