- Se il rapporto tra politica e querele è tanto radicato nel panorama italiano, perché preoccuparsi? Perché le querele pretestuose rappresentano un abuso.
- Si presta alla strategia del querelante la proverbiale lentezza del sistema di giustizia italiano.
- Nel 2017, il 67 per cento dei procedimenti penali per diffamazione sono stati archiviati dal giudice per le indagini preliminari perché manifestamente infondati, segnale evidente dell’intenzione pretestuosa dei querelanti.
Negli ultimi mesi l’Italia ha attirato l’attenzione di numerose organizzazioni internazionali che si occupano di libertà di stampa.
Nel rapporto Mapping Media Freedom 2022 dedicato al monitoraggio della libertà di stampa nel continente europeo, l’Italia figura tra i dieci paesi Ue in cui, durante lo scorso anno, si sono registrate più minacce rivolte a media e giornalisti.
Il caso italiano ha attirato l’attenzione di Mfr un consorzio di organizzazioni che monitorano la libertà di stampa in Europa tra cui Obct, e di Case, la coalizione europea anti-Slapp (le slapp sono azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica), come anche del suo principale promotore, la Daphne Caruana Galizia Foundation.
A destare preoccupazione, la rapida successione di querele per diffamazione e conseguenti procedimenti giudiziari nei confronti di giornalisti ed intellettuali italiani intentate da politici e figure pubbliche di alto livello.
Il potere contro i giornalisti
A partire dallo scorso settembre, si sono susseguiti nell’ordine: nel quadro del procedimento penale per diffamazione avviato nel 2014 dall’ex ministra per il Lavoro e attuale presidente di Italia Viva Teresa Bellanova; la richiesta di un procuratore di Lecce di infliggere sei mesi di carcere ai giornalisti Mary Tota, Danilo Lupo e Francesca Pizzolante; la minaccia di querela formulata dall’attuale ministro della Difesa Guido Crosetto nei confronti di Domani; la querela per diffamazione nei confronti del direttore di Domani Stefano Feltri e del giornalista Emiliano Fittipaldi formalizzata dall’attuale premier Giorgia Meloni; le prime tre udienze della causa penale per diffamazione avviata da quest’ultima nei confronti di Roberto Saviano; la prima udienza del processo per diffamazione a seguito di una querela dell’allora direttore del Tg2, attuale Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, nei confronti di Roberto Saviano; la minaccia di querela da parte del leader di Italia Viva Matteo Renzi nei confronti di Marco Travaglio; la prima udienza del procedimento penale per diffamazione avviato dall’attuale Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini nei confronti di Roberto Saviano.
Ci sono poi quelle meno note, ma ugualmente problematiche, avviate da amministrazioni locali: è il caso della querela per diffamazione formulata dal comune di Abbiategrasso, in provincia di Milano, nei confronti della reporter indipendente Sara Manisera.
Una tradizione di bavagli
In Italia, il legame tra politica e media è stato spesso scandito dal ricorso alle querele bavaglio - in campo internazionale identificate con l'acronimo Slapp - un fenomeno che coinvolge l’intero spettro partitico.
A dimostrazione che il ricorso alle liti pretestuose non riguarda solo l’attuale compagine governativa, e nemmeno solo il passato recente, basti ricordare alcuni casi illustri di figure pubbliche che hanno cercato di mettere a tacere il diritto di cronaca e satira.
Limitandosi solo a esempi che hanno coinvolto le cariche più alte dello stato, si possono evocare il caso dell’allora presidente del consiglio ed esponente della Democrazia Cristiana, Ciriaco De Mita, il quale nel dicembre del 1988 querelò l’allora direttore dell’Unità Massimo D’Alema per un articolo che titolava “De Mita s’è arricchito col terremoto”. Il terremoto era quello che colpì l’Irpinia nel 1980.
La vicenda si concluse con un chiarimento tra i due, che vide D’Alema ammettere di aver omesso un punto interrogativo a conclusione del titolo e De Mita ritirare la querela.
Pochi anni più tardi, nell’ottobre del 1999, fu Massimo D’Alema, premier in carica, a querelare. D’Alema contestava a Giorgio Forattini una vignetta satirica - divenuta celebre - quella della lista Mitrokhin, firmata per Repubblica; querela cui seguì una richiesta di risarcimento danni di tre miliardi di lire.
Solo dopo una dichiarazione del disegnatore circa la natura meramente satirica e non storicamente attendibile della sua vignetta, D’Alema ritirò la querela, nella primavera del 2001, quando non era più premier in carica.
Nella primavera del 2009, l’allora capo di governo Silvio Berlusconi querelò la Repubblica per l’articolo a firma Giuseppe D’Avanzo “Incoerenze di un caso politico: dieci domande a Berlusconi” circa le imbarazzanti frequentazioni del Cavaliere, danni quantificati dai legali di Berlusconi per un milione di euro.
Una causa che si è conclusa nel 2016 con la pronuncia della Corte d’appello di Roma a favore del giornale.
Infine, vale la pena ricordare un caso che, seppure interessò la politica locale, cambiò la storia della repubblica. Era il 1992 ed il giornalista Nino Leoni venne querelato da Mario Chiesa, allora presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, per una serie di articoli che questi firmò per Il Giorno e che diedero il via a Mani Pulite.
Abuso di diritto
Se il rapporto tra politica e querele è tanto radicato nel panorama italiano, perché preoccuparsi Perché le querele pretestuose rappresentano un abuso di diritto. Si presta alla strategia del querelante la proverbiale lentezza del sistema di giustizia italiano.
Per quel che riguarda i procedimenti civili, i dati Istat, che svelano questa “finzione” dei querelanti: nel 2017, il 67 per cento dei procedimenti penali per diffamazione sono stati archiviati dal giudice per le indagini preliminari perché manifestamente infondati, segnale evidente dell’intenzione pretestuosa dei querelanti.
In secondo luogo, perché gli attori che ricorrono a questo strumento vessatorio sono molto più potenti dei soggetti querelati ed impiegano le querele per silenziare le voci scomode.
L'obiettivo ultimo perseguito dai potenti attraverso le liti pretestuose non è far valere un proprio diritto, ma mettere a tacere le critiche attraverso l’intimidazione ed il prosciugamento delle risorse del querelato.
Questo potere censorio ha una ripercussione sulle informazioni cui i lettori hanno accesso ed infine sulla partecipazione pubblica.
Trasferendo il dibattito dalla sfera pubblica a quella giudiziaria, le cause vessatorie inibiscono il dibattito su questioni di pubblico interesse.
Come ricordato in un recente contributo scritto da alcuni membri del gruppo anti-Slapp del Regno Unito, per comprendere l’impatto del fenomeno sulla società - aldilà dei singoli casi - basta interrogarsi sugli articoli che per timore di incorrere in una querela per diffamazione non sono mai stati scritti, o pubblicati; sugli abusi di potere che non sono mai stati esposti al pubblico.
Questo è il costo delle Slapp che pesa sul dibattito pubblico, e, per estensione, sulla democrazia.
In terzo luogo, perché i querelanti svolgono un ruolo pubblico. Quando ad essere protagonisti di questo fenomeno sono le più alte cariche di governo, ci si deve preoccupare ancora di più, sia in virtù di quello sbilanciamento di potere che caratterizza le Slapp sia perché proprio l’esercizio di un ruolo pubblico richiederebbe una maggior accettazione della critica.
Se è vero che l’istituto della diffamazione permette di salvaguardare la reputazione degli individui da false dichiarazioni, è necessario che questa garanzia sia bilanciata da misure che garantiscano la libertà d’espressione in caso di liti pretestuose e - nella richiesta di risarcimenti - da una proporzionalità rispetto al danno subito.
L’attuale quadro giuridico che disciplina l'istituto della diffamazione non offre misure di tutela ai querelati in caso di procedimenti infondati e di richieste di risarcimento danni spropositate. La Corte Costituzionale si è ripetutamente espressa negli ultimi anni a favore di una riforma legislativa di ampio respiro delle norme sulla diffamazione.
Politici e non cittadini
In Italia tanto la giurisprudenza nazionale, quanto quella europea, hanno più volte ribadito che i politici di professione non possono considerarsi comuni cittadini, quando entra in gioco il dibattito pubblico. L’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 costituisce la fonte normativa europea principale.
Quanto alla giurisprudenza, già nel 1986, la Corte europea per i diritti dell’uomo aveva espresso un principio chiave per la giurisprudenza successiva: nel suo esercizio di critica relativo al dibattito politico, la stampa gode di limiti «più ampi per un politico in quanto tale rispetto ad un privato».
Ancora, per la Corte di Strasburgo, le figure pubbliche sono tenute a tollerare una critica politica espressa in maniera virulenta, ammettendo «una certa dose di esagerazione e provocazione», proprio in virtù del fatto che questi godono di forum mediatici e politici per rispondere ad eventuali attacchi ingiustificati.
In una pronuncia emblematica ed illuminante anche per i casi della cronaca diffamatoria più recente, nel 1997 la Corte europea venne chiamata a dirimere un contenzioso tra Gerhard Oberschlick, giornalista austriaco, e il noto politico di estrema destra Jörg Haider.
Nel 1990 quest’ultimo, all’epoca dei fatti governatore della Carinzia, nel corso di un comizio aveva decantato il ruolo dei soldati austriaci, inclusi quelli che avevano combattuto nella Wehrmacht hitleriana.
In risposta, il giornalista viennese gli dedicò un articolo titolato “P.S.: ‘Idiota’ Piuttosto che ‘Nazista’”. Nel ribaltare la sentenza austriaca, la corte di Strasburgo tenne conto sia del profilo pubblico di Haider, sia della sua retorica intenzionalmente provocatoria.
La corte europea concluse che, sebbene il termine “idiota” potesse essere considerato polemico, l’articolo non costituiva un attacco personale.
Al contrario, l’impiego di un termine offensivo, idiota appunto, era da considerarsi proporzionale all’indignazione causata dall’intervento di Haider.
Berlusconi “buffone”
Se è vero che la Corte di Strasburgo costituisce un alleato fondamentale quando parliamo di libertà di stampa, anche i giudici nazionali hanno accolto l’evoluzione della giurisprudenza europea in tema di critica politica e figure pubbliche.
Caso esemplare quello che nel 2003 vide coinvolti l’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi ed il giornalista indipendente Piero Ricca.
A margine di un’udienza milanese che vedeva Berlusconi imputato, il giornalista manifestò il proprio dissenso dandogli del “buffone”.
Ne seguì una querela e una richiesta di risarcimento di 50.000 euro. All’ultimo grado di giudizio, la Corte di Cassazione assolse Ricca, evidenziando come l’epiteto fosse da intendersi nel contesto di critica politica mossa nei confronti di una personalità di altissimo livello, ribadendo che: «La critica può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria».
Infine, difficile non citare il più recente caso del cardinale Angelo Becciu. Il cardinale aveva avanzato una richiesta di 10 milioni di euro in risarcimento danni per le inchieste pubblicate dall’Espresso il cui contenuto faceva luce sui fondi vaticani spesi dal porporato.
Lo scorso novembre, il tribunale di Sassari ha dato ragione al settimanale, accogliendo la tesi della difesa, secondo cui, sebbene il tono della critica impiegata negli articoli pubblicati fosse «duro, aspro e polemico», questo era da considerarsi «direttamente proporzionale al ruolo di altissimo livello ricoperto dall’autore».
Come difendersi
Che strumenti ha la società civile per difendersi da questo uso vessatorio del diritto? Il fenomeno delle cause vessatorie varca i confini italiani, come dimostrato dall’attivismo di Case, espressione della mobilitazione della società civile europea.
La consapevolezza dell’estensione del fenomeno e dell'impatto che questo ha sulla democrazia ha persuaso la Commissione europea ad avanzare una proposta di direttiva, l’equivalente di un disegno di legge, diretta a stabilire standard minimi di protezione contro le Slapp a favore di tutti quegli attori, non solo i giornalisti, che svolgono un ruolo di cani da guardia a servizio della democrazia.
Tra le misure proposte volte a fornire ai giudici strumenti per contrastare le cause pretestuose di carattere civile, il rigetto anticipato dei procedimenti giudiziari manifestamente infondati, così come in Italia già si procede nel quadro di procedimenti penali; l’istituzione di misure di rimedio che garantiscano al querelato di richiedere un risarcimento dei danni materiali e immateriali; la possibilità di infliggere sanzioni deterrenti alla parte che ha avviato un procedimento giudiziario abusivo teso a bloccare la partecipazione pubblica.
Tornando alla criticità del fenomeno italiano, in cui i querelanti troppo spesso ricoprono ruoli politici e pubblici, l’adozione di misure anti-Slapp permetterebbe la promozione di una cultura politica in cui la partecipazione pubblica sia concretamente esercitabile da tutti senza timore. In cui gli attori politici, invece di trasferire il dibattito politico alla sfera giudiziaria, rispondano alle critiche e al dissenso nel contesto della dialettica politica stessa nei tanti forum che hanno a disposizione.
A noi, società civile, spetta il dovere di continuare ad attirare l’attenzione ed informare sui casi italiani ed europei di Slapp, e spronare il parlamento ed il governo italiano affinché la proposta di direttiva della Commissione europea venga sostenuta attraverso il suo iter legislativo in sede di parlamento europeo e Consiglio dell’Ue, iter la cui conclusione è prevista per la fine del 2023.
Le proposte di riforma
Le più recenti proposte di riforma del quadro normativo italiano, come il rilancio del disegno di legge che era stato promosso dall’ex senatore Giacomo Caliendo, rifuggono da un confronto con il dibattito attualmente in atto a Bruxelles, il quale verte intorno alle querele vessatorie.
Non a caso, l’Italia figura al 58esimo posto degli indicatori per la libertà di stampa non tanto per la possibilità di incorrere in una pena detentiva, ma per altri fattori che minacciano la professione giornalistica: il crimine organizzato (ricordiamo i 22 giornalisti sotto scorta) e l’autocensura cui si ricorre per evitare di incorrere in azioni legali.
Il disegno di legge 812, seppure sancendo l’eliminazione della pena detentiva per i reati di diffamazione, già ritenuta incostituzionale dalla Consulta, indica poche ed edulcorate misure dirette ad arginare le liti pretestuose.
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